lunedì, luglio 13, 2009

Speculatori più prudenti dei banchieri?

Il rialzo di Borsa degli ultimi mesi ha distolto l’attenzione dalle discussioni sulla riforma europea del settore finanziario. Si tratta di proposte demagogiche, che aggraveranno il problema e che puntano a punire un settore impopolare, ma che si è dimostrato più prudente e sano di quello favorito dai governi

La variegata comunità dei gestori di fondi alternativi, dagli hedge fund a quelli di private equity, non è particolarmente amata e non ha mai fatto nulla per esserlo. Gli eccessi nel consumo sono stati eclatanti e le loro pratiche, sicuramente più aggressive di quelle degli attori tradizionali, li hanno resi i soggetti più impopolari nel panorama finanziario: un ministro tedesco li definì gentilmente “locuste”; l’ultima enciclica papale è stata riassunta da Milano Finanza con un titolo che suonava “La scomunica del Papa sugli hedge“.

DAGLI ALL’UNTORE – La pubblicità negativa li ha resi sicuramente invisi al grande pubblico e li ha trasformati nel capro espiatorio perfetto per la crisi finanziaria in atto. Le conseguenze non si sono fatte attendere: a Febbraio, Francia e Germania hanno cercato di proporre regole draconiane per limitarne l’operatività; la riunione dei ministri del le finanze del G8 di giugno si è appoggiato il cosiddetto Lecce framework; l’Unione Europea sta in questo momento discutendo nuovi obblighi per il settore degli hedge fund, che imporrebbero una serie di obblighi di “trasparenza” che suonano decisamente punitive. Il desiderio della classe politica di punire un settore popolato da arroganti megalomani refrattari ad ogni considerazione d’ordine politico e allo scambio di favori è più che comprensibile, soprattutto perché così facendo è facile deflettere l’ira popolare verso un capro espiatorio che distolga l’attenzione dal proprio pesante coinvolgimento. L’argomento, tuttavia, solleva parecchi dubbi : siamo certi che gli operatori preferiti dal governo, le banche commerciali tradizionali, si siano comportati meglio? Quando si guarda un po’ più da vicino, i colpevoli sono regolarmente gli istituti più vicini a governi e banche centrali, ossia le istituzioni più regolamentate e sorvegliate. Fannie Mae e Freddie Mac erano garantite “implicitamente” dal Governo, AIG , Lehman, IKB e WestLB erano regolamentate minuziosamente o addirittura partecipate da governi.

PIU’ STABILI DELLE BANCHE – Ad un’analisi più attenta, sia il comportamento che la performance degli hedge fund sono stati migliori di quello delle grandi banche. Proprio perché non regolamentati, gli investitori in fondi alternativi ed in generale nel cosiddetto “sistema bancario parallelo” sono stati molto più attenti nella sorveglianza dei dirigenti. I risultati di questa disciplina sono evidenti: gli hedge fund avevano nel 2007 e 2008 una leva finanziaria minore rispetto al settore bancario, mentre le loro performance sono state meno volatili di e le liquidazioni di fondi sono avvenute senza porre problemi a livello di sistema, nonostante la scomparsa di quasi un terzo dell’intera industria: il settore, in aggregato, ha perso il 18% in un anno ed ha visto le masse gestite scendere del 30% ; il settore bancario ha visto la propria capitalizzazione scendere di due terzi nello stesso periodo - e tacciamo delle somme prestate dalla banche centrali per sostituire i finanziamenti privati. Le sicure, affidabili e tranquille istituzioni finanziarie aiutate, finanziate e supervisionate dallo Stato hanno invece ripetuto il copione tradizionale di una crisi bancaria: troppo credito, con l’incoraggiamento delle autorità, seguito da una bolla speculativa e dal conseguente crollo. Questa volta si è resa necessaria un’operazione di salvataggio senza precedenti come dimensioni, ma la dinamica è fin troppo nota. La migliore gestione del rischio da parte dei “selvaggi” hedge fund non dovrebbe stupire: nel mondo degli investimenti alternativi, chi sbaglia paga di tasca propria. In quello bancario, chi sbaglia fa pagare il contribuente, ma si tiene la retribuzione. I cosiddetti hedge fund sono stati definiti “uno schema di compensazione mascherato da asset class”: prima della bolla speculativa e della crisi, la società di gestione intascava il 2 per cento delle masse gestite ed il 20% di ogni profitto. Per poter caricare commissioni di quell’entità, un gestore deve essere ritenuto uno dei migliori nel suo campo , avere un ottimo curriculum e dare forti garanzie di continuità. Anche per questo, i gestori sono solitamente soci nella società di gestione e, soprattutto, buona parte della retribuzione viene investita nei fondi che gestiscono: se sbagliano, pagano sia con buona parte del proprio reddito che con una larga fetta dei propri risparmi. I fondi di private equity hanno strutture di compensazione simili a quelle degli hedge fund, anche se strutturate in maniera lievemente differente e con una minore partecipazione per i dipendenti. L’incentivo a rischiare soltanto in maniera controllata e razionale è quindi forte, al contrario di quanto accade nel settore “tradizionale”, dove gli stipendi sono fissi ed i bonus minori, ma la penalizzazione per il fallimento è molto meno forte. A livello bancario, poi, la contropartita della regolamentazione governativa è il supporto, implicito o esplicito, che viene fornito anche alle banche meno solide. Questo assetto pone un premio sulla disponibilità a rischiare anche oltre il giusto, oltre che sull’acquiescenza ai desideri delle autorità di vigilanza e della classe politica: la gestione del rischio non serve, quando paga Pantalone.

PREMIARE I PEGGIORI – In un mondo ideale, non dovrebbe essere necessario alcun intervento governativo particolare nel settore finanziario: la vicenda IRI, con il panettone di Stato e i disastri nei “settori trategici” , dovrebbe chiarire come affidare alla classe politica il potere d’interferire nelle scelte individuali sia il male minore e non un fatto di per sé positivo. Ogni proposta razionale di riforma del settore finanziario dovrebbe quindi partire dall’idea di estendere il tipo di regolamentazione che ha prodotto il risultato migliore e premiare gli operatori che hanno saputo gestire meglio il rischio, superando la crisi senza ricorrere all’intervento pubblico. Le proposte attuali , invece, vanno esattamente nella direzione opposta: estendono le norme del settore bancario, così ben regolato da generare crisi da generazioni e che ha richiesto interventi per decine di miliardi di euro, ad un settore che, lasciato a se stesso, ha dimostrato di poter sopravvivere ad una crisi drammatica evolvendosi in maniera radicale senza dover chiedere aiuti governativi. Rimane da chiedersi se si tratti di semplice ignoranza da parte della classe politica, oppure dell’ennesimo tentativo di trovare un capro espiatorio, per non perdere potere e non ammettere il fallimento dell’intervento governativo e burocratico nel settore dove forse la lunga mano dello Stato agisce da più tempo e con più intensità. Meglio, molto meglio accusare il “mercatismo”, ideologia sconosciuta nel mondo bancario, dove la commistione fra governo e industria è pressoché totale.


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