domenica, settembre 27, 2009

Banche centrali, inciuci nazionali, perdite universali

Le banche privilegiano grandi imprese e titoli di Stato ai prestiti alle piccole e medie imprese. La responsabilità è in buona parte dei governi e dei loro precedenti tentativi di ottenere “giustizia sociale” .

In Italia, le banche hanno ridotto drasticamente i prestiti a piccole e medie imprese, mentre hanno ampliato marginalmente quelli alle grandi imprese e, soprattutto, gli acquisti di titoli di Stato, usando i fondi generosamente prestati dalle Banche Centrali. Una strategia controversa e contraria agli scopi dei governi, ma derivante proprio dalle politiche governative che avevano come scopo la tutela dei risparmiatori e l’espansione, anche drogata del credito. Le politiche di tassi a zero hanno, soprattutto, gettato benzina sul fuoco dei mercati finanziari, generando quella che somiglia all’ennesima bolla. Non parliamo soltanto di speculazioni di Borsa, ma anche e soprattutto del cosiddetto carry trade di tasso: le banche prendono a prestito a brevissimo e a tassi quasi nulli dalla Banca Centrale Europea ed investono in titoli di Stato a lungo termine, lucrando la differenza. La sola Banca Intesa, ad esempio, ha incrementato di 18 miliardi di euro il proprio portafoglio titoli, mentre riduceva di circa 8 miliardi i prestiti alla clientela. Il trucco è conosciuto, ma poco citato da governi e banche centrali. I governi devono collocare quantità sempre maggiori di debito e quindi accettano volentieri qualsiasi aiuto, anche quello di banche che prendono a prestito da un ente statale (la BCE) per prestare ad altri (i governi). Le banche centrali desiderano un aumento delle riserve di capitale delle banche; il carry trade fornisce notevoli utili che possono essere messi a riserva. Il rischio è che, quando ariverà l’inevitabile rialzo dei tassi, le banche non siano in grado di scaricare le proprie posizioni e quindi comincino ad accumulare perdite rovinose. Sino ad allora, siamo di fronte all’ennesimo sussidio, pagato dal contribuente, che aiuta a nascondere il nocciolo del problema bancario: il vero padrone, in un istituto di credito regolamentato,non è soltanto l’azionista, che conta poco rispetto ad una dirigenza teoricamente vigilata e perennemente sostenuta da coloro che la dovrebbero controllare. La stessa autorità di vigilanza si arroga parzialmente il ruolo degli azionisti; gode di poteri d’intervento inauditi in ogni altro segmento di un’economia di mercato, ma preferisce dimenticarsene quando la stampa ed i politici aggrediscono un “capitalismo selvaggio” che nel settore bancario non è mai arrivato.

PRESTITI E DOLORI- Per quanto riguarda i prestiti alle grandi imprese, gettiamo uno sguardo negli USA, dove per almeno alcune categorie di prestiti le banche sono ancora obbligate e riportare il reale valore dei prestiti e non il valore “storico”. Ebbene, secondo uno studio annuale ufficiale, le perdite sono triplicate nel corso del 2009 , arrivando ai 53 miliardi di dollari. Le illusioni riguardo il basso rischio dei prestiti alle blue chip ed alle mega-operazioni societarie si è rapidamente rivelata fallace, come invano avevano ripetuto per anni gli stessi analisti che adesso vengono accusati, paradossalmente, di “liberismo selvaggio”. I dirigenti delle banche commerciali faranno probabilmente spallucce: si tratta di ulteriori munizioni nella battaglia per ottenere ancora più aiuti di stato, espliciti o impliciti. Le banche nostrane dovrebbero prestare attenzione: le grandi aziende possono essere tranquillamente accompagnate al mercato obbligazionario, invece d’impiegare capitale bancario prezioso prestando loro a tassi poco redditizi: le nostre banche prestano normalmente a tassi tropo ridotti ai grandi gruppi, rifacendosi poi su tutti gli altri clienti. L’unica eccezione sono le operazioni rischiose, i prestiti forniti a società grandi, ma fragili, il cui maggior pregio è la capacità relazionale del proprietario. I nomi di Zunino e di altri “capitani coraggiosi”, del presente e del recente passato, tornano alla mente. Se il nostro premier smettesse di parlare di ciò che non conosce e rivolgesse gli occhi verso casa, troverebbe “speculatori” ben più meritevoli di sanzione. Purtroppo, sia l’attuale governo, come il precedente e l’opposizione, sembrano soddisfatti con posizioni demagogiche ed autolesionistiche. Le normative seguite al caso Parmalat hanno chiuso il mercato del credito per quasi tutte le aziende italiane, bloccandone lo sviluppo; nel frattempo, invece, il mercato obbligazionario aziendale cresceva d’importanza in tutta Europa. Tale chiusura non ha portato alcun vantaggio alla tutela dei risparmiatori, lasciati in balia di strumenti ancora meno trasparenti ed ha lasciato le banche come uniche interlocutrici delle grandi aziende, regalando loro un business molto politico, ma non molto redditizio, che sottrae capitale e talenti che potrebbero essere impiegati per sostenere la vera spina dorsale dell’economia: le piccole e medie imprese. La soluzione non è una ulteriore camicia di forza, ma la rimozione dei vincoli che garantiscono alle banche la propria rendita di posizione.


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