lunedì, settembre 14, 2009

Lehman, un anno vissuto pericolosamente

Banche centrali e governi hanno dato la risposta sbagliata al problema giusto.


FALLIMENTO A SORPRESA -Il 15 Settembre del 2008 il management di Lehman Brothers gettava la spugna ed annunciava che avrebbe portato i libri in Tribunale. Per la prima volta nella storia recente, il governo americano accettava di lasciar dichiarare bancarotta ad una primaria istituzione finanziaria, dopo che le trattative con l’inglese Barclays non erano andate a buon fine. Si verificava quello che i trader di tutto il mondo avevano considerato un puro caso di studio sino a pochi mesi prima: una delle “Bulge Bracket“, le grandi banche d’affari di Wall Street, si avviava alla liquidazione. Si apriva così uno dei più grandi collaudi della solidità dell’infrastruttura che sostiene il sistema finanziario moderno. Il risultato è incoraggiante: il mondo non è crollato e il sistema ha imparato a correggere i propri errori; il risultato opposto a quelli ottenuti dai salvataggi governativi, che hanno incoraggiato un aumento di rischi e dimensioni, nell’attesa che chi è “troppo grande per fallire” verrà sempre salvato, soprattutto se politicamente fedele. La caduta di Lehman Brothers avvenne dopo alcune settimane di attività febbrile intorno al settore delle banche d’affari americane, particolarmente vulnerabili alla crisi finanziaria in atto già da quasi un anno. La dichiarazione di fallimento fu totalmente inaspettata, per motivi politici più che finanziari. Il CDS e le obbligazioni Lehman scambiavano già a livelli che suggerivano un’imminente chiusura, ma molti operatori davano per scontato che il governo e la Federal Reserve sarebbero intervenuti, come accaduto con Bear Stearns. La più piccola delle bulge bracket firms aveva subito una crisi di liquidità sei mesi prima ed era stata acquistata dalla concorrente J.P. Morgan, dopo che la Federal Reserve aveva acconsentito a farsi carico di decine di miliardi delle eventuali perdite sui titoli in portafoglio alla banca d’affari. Quasi contemporaneamente a Lehman, Goldman Sachs e Morgan Stalney furono costrette a cercare iniezioni di capitale da nuovi azionisti, per tamponare le falle in bilancio, Merrill Lynch fu costretta a vendersi al colosso bancario Bank of America (BoA); il Ministero del Tesoro e il governatore della Fed Bernanke sono stati accusati di avere esercitato indebite pressioni sulla dirigenza della banca acquirente, minacciando ritorsioni nel caso la banca non avesse chiuso l’operazione . L’acquisto di Merrill Lynch è costato miliardi di dollari in svalutazioni a BoA ed ai suoi azionisti, mentre la Federal Reserve è in rosso per circa 8 miliardi di dollari sui portafogli incamerati per facilitare l’acquisizione di Bear Stearns. Per contrasto, la liquidazione di Lehman sta procedendo in maniera relativamente ordinata. Da cosa nasce la disparità di trattamento fra Bear Stearns, Merrill Lynch e Lehman? Perché non si è scelta la strada della liquidazione anche per Bear Stearns, o per Merrill Lynch?

BANCHE O NON-BANCHE? Il problema maggiore è stato che le cosiddette “investment banks” non erano, in teoria, banche nel senso comune del termine. Non avevano la possibilità di aprire conti correnti e di raccogliere depositi presso il pubblico, né di offrire direttamente prestiti o mutui agli individui. In cambio, erano soggette a norme di vigilanza meno stringenti rispetto alle banche commerciali propriamente dette. Le uniche, parziali, eccezioni erano le due banche universali J.P.Morgan e Citigroup, che si configuravano come gruppi diversificati, comprendenti sia una società che esercitava attività d’intermediazione e consulenza ad aziende e investitori, sia una serie di banche commerciali. Le altre banche d’affari erano quasi soltanto dedite alla compravendita di titoli e di portafogli di prestiti originati da altre banche; sino al 2005, soltanto le “anomale” Citigroup e J.P.Morgan mantenevano grandi portafogli titoli per investimento, anche se tutte detenevano ”magazzini” impiegati per fornire prezzi in maniera continuativa (il cosiddetto market-making) oppure per fungere da materia prima per costruire titoli strutturati. Non a caso, il termine gergale per definirle negli ambienti finanziari è “broker”, ossia intermediari puri.

A partire dal 2004-2005, la manipolazione dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali e la manipolazione del mercato dei cambi da parte della Cina e di altre nazioni asiatiche aveva creato una condizione di eccessiva liquidità: tassi troppo bassi avevano incentivato l’assunzione di debito, mentre la domanda di titoli in dollari aveva distorto la percezione del rischio. La bolla che ne seguì fu particolarmente severa nel campo delle cartolarizzazioni garantite da mutui; Il fatto che i prezzi nominali delle case non fossero mai calati, a livello nazionale, dai tempi della Grande Depressione fece nascere la percezione che i mutui sottostanti alle cartolarizzazioni fossero molto più sicuri di quanto fosse ragionevole prevedere; i bassi tassi ebbero un doppio effetto: incentivarono chi voleva indebitarsi per comprar casa, aumentando l’offerta; stimolarono gli investitori a caccia di rendimento ad abbandonare i titoli di Stato e ad acquistare le cartolarizzazioni, che portavano rating molto elevati. Ad un certo punto, l’euforia contagiò le banche d’affari; iniziarono a credere alla propria stessa propaganda. Una ad una, affiancarono al ruolo di intermediari quello di investitori; prive di depositi e di raccolta a lungo termine, s’indebitarono massicciamente a brevissimo termine sul mercato monetario e trattennero nei portafogli d’investimento grandi quantità di titoli illiquidi, in particolare mutui residenziali e commerciali. Il rischio, invece di essere distribuito fra investitori professionisti, rimaneva immagazzinato nei veicoli fuori bilancio di proprietà di banche commerciali e broker. Gli azionisti vedevano, anche se solo parzialmente, ma soltanto una minoranza si preoccupava: la strategia fruttava denaro, il rischio sembrava ridotto e tutti si aspettavano che, in caso di problemi, il Governo sarebbe intervenuto. I creditori vedevano, ma anni di mercato toro e di supporto automatico da parte delle banche centrali li avevano resi compiacenti: pur di guadagnare interessi, si accettavano tassi ridotti e, soprattutto, poche garanzie sui prestiti a breve.


BOLLA E CROLLO - Fra il 2007 e l’inizio del 2008, lo scoppio della bolla immobiliare americana mise in crisi il mercato: l’assunto centrale che i prezzi degli immobili negli USA non potevano scendere era stato smentito, alterando drasticamente il profilo di rischio percepito, con un quasi immediato crollo dei prezzi. A questo punto, i giganteschi magazzini si trasformarono rapidamente in una formidabile pietra al collo: gli aumenti di valore negli anni erano stati distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi, tramite denaro presto a prestito impiegando quegli stessi titoli come garanzia. Adesso, le svalutazioni facevano scattare richieste di integrazioni di tali garanzie, aumentando la necessità di liquidità da parte del debitore. Fu la scintilla che innescò la grande crisi di liquidità: il credito a breve e brevissimo termine si prosciugò quasi immediatamente, portando al dissesto i “giocatori” più deboli e meno liquidi. Ogni intermediario cominciò ad insistere nel rispetto dei termini delle garanzie sui prestiti a clienti e controparti, esacerbando il problema. Banche ed investitori ricordarono improvvisamente quanto dipendenti dai finanziamenti a breve fossero alcune istituzioni e smisero di far loro credito, oppure pretesero ampie garanzie, non soltanto sulle cartolarizzazioni, ma per qualunque linea di credito ed operazione finanziaria da rinnovare. I più forti e prudenti non ebbero particolari problemi. Per i più aggressivi ed indebitati, le cose divennero rapidamente drammatiche. Era l’inizio di uno dei cicli di crisi e “pulizia” del mercato finanziario, comuni sino agli anni ‘90, ma sconosciuti da quasi 15 anni. Bear Stearns era uno dei broker più aggressivi: storicamente la più piccola e spericolata fra le “bulge brackets”, non era soltanto molto esposta alla crisi immobiliare. Era anche attivissima nelle operazioni con gli hedge fund , fornendo loro non soltanto servizi di intermediazione, ma anche credito a breve termine. Lehman Brothers era storicamente forte nei settori delle commodities e del reddito fisso, settori dove i clienti richiedevano credito, ma si era sempre comportata in maniera decisamente prudente. Sino al 2006, almeno, quando il suo management decise di buttarsi anch’esso nella speculazione in conto proprio, esattamente quando cominciavano i primi dubbi sulla bolla. Bear Stearns ebbe fortuna: fu la prima a vedersi rifiutare credito dal mercato e la Fed, pur non essendo tecnicamente obbligata a farlo, fece pressioni per un salvataggio. Lehman non fu così fortunata: la banca inglese Barclays si era inizialmente offerta per acquisire Lehman in cambio di un aiuto di Stato simile a quello offerto a J.P.Morgan per Bear Stearns. L’incapacità di raggiungere un accordo portò alla chiusura dei colloqui ed al fallimento. Sui motivi del mancato accordo, le interpretazioni abbondano e, sicuramente, le maggiori dimensioni di Lehman e la nazionalità non americana di Barclays furono grossi ostacoli, anche se un’interpretazione maggiormente politica non può essere esclusa. Merrill Lynch venne “salvata” perché si ritene che un secondo fallimento, una settimana dopo quello di Lehman, avrebbe destabilizzato eccessivamente il sistema; la Fed ed il Tesoro, d’altronde, stavano già sussidiando per decine di miliardi di dollari le banche commerciali, implicate nello stesso genere di speculazioni. E’ quello che sarebbe davvero successo? Non esistevano davvero salvaguardie alla stabilità del sistema, al di fuori di un intervento della Fed? La legislazione sul fallimento e sul commissariamento bancario sarebbero davvero state inutili? Il fato, così differente, di Lehman rispetto alle altre banche ci permette di rispondere ad alcuni interrogativi, comparando i costi ed i risultati dell’intervento governativo, con i costi ed il risultato di una ristrutturazione tramite il Tribunale. Le risposte sono meno ovvie di quanto ci si potrebbe aspettare, anche senza considerareil maggior difetto dei salvataggi statali: la conferma che per i grandi, alla fine, paga sempre Pantalone.


PROTEGGERE LE TUBATURE - L’unico obbiettivo di una banca centrale, di fronte ad una crisi finanziaria, dovrebbe essere quello di proteggere il funzionamento del sistema, laddove gli accordi privati non garantiscano tale sicurezza; proteggere una singola banca, i suoi azionisti o i suoi obbligazionisti non è necessario e neppure desiderabile, perché significherebbe premiare imprese inefficienti ed investitori miopi, impedendo invece a d investitori banche più abili o prudenti di aumentare la propria quota di mercato, aumentando l’efficienza e l’innovazione nel settore. L’intervento governativo straordinario effettuato dalla Fed nel caso di Bear e di Merrill non ha danneggiato il sistema dei pagamenti, ma non è chiaro se fosse necessario; l’nfrsatruttura di mercato sembra avere infatti retto il colpo del fallimento di Lehman in maniera dolorosa ma istruttiva . Esiste già, infatti, un sistema di convenzioni, un intreccio di contratti standard,codificato dalle associazioni che fungono da forum di consultazione fra le banche attive su derivati e sistemi di pagamenti. Tali convenzioni dovrebbero minimizzare i rischi che il fallimento di una controparte metta a rischio la validità delle operazioni in derivati con i propri clienti e con le altre banche. Una parte fondamentale di questo intreccio è costituito da una sorta di “rete di salvataggio”, un insieme di clausole e di pratiche che dovrebbe assicurare una ordinata conclusione dell’operazione anche in caso di insolvenza di una delle controparti; ogni operazione viene svolta seguendo queste pratiche convenzionali. Questo sistema ha funzionato sorprendentemente bene, considerati i timori derivanti dalla crisi e dal fallimento di Lehman. Le controparti finanziarie della banca fallita sono riuscite ad ottenere quanto loro dovuto ed a riaprire nuovi contratti con altre banche, senza eccessivi costi; le corti fallimentari implicate non hanno frapposto ostacoli, permettendo una rapida risoluzione dei contratti di mercato, anche quando non si trattava di operazioni concluse su mercati regolamentati. Il funzionamento dei mercati dei derivati e dei pagamenti ha retto al colpo, quindi, anche se è risultata evidente la necessità di una serie di profonde riforme, alle quali stanno lavorando sia le autorità di vigilanza che, soprattutto, banche ed altri operatori. Le attività caratteristiche di Lehman sono state acquisite da Barclays e dalla giapponese Nomura, che hanno riassunto la maggior parte dei dipendenti. Invece di una serie di interventi ad hoc, ottimi dal punto di vista della pubblicità, del marketing politico e della propaganda statalista, ci dovremmo chiedere se non sarebbe stata sufficiente una interpretazione flessibile delle leggi sul commissariamento bancario ed, al limite, una riforma della nomativa. Persino la compassata BIS, la Banca dei regolamenti Internazionali si è espressa in tal senso, criticando l’ipotesi che esistano banche “troppo grandi per fallire”. Non è un caso che le grandi banche sono di nuovo impegnate nello stesso comportamento “speculativo” di un anno fa: la lezione tratta dal 2008 è che basta essere abbastanza grandi e abbastanza obbedienti e si verrà salvati. Qualche Lehman in più, fra le grandi banche, ci avrebbe evitato l’interferenza politica nei processi di allocazione di capitale e credito. Soprattutto, senza l’iperattivismo di banche centrali e governi, , ci saremmo evitati altre bolle speculative, che iniziano sempre con la manipolazione dei mercati da parte di coloro i quali ne dovrebbero essere i custodi e continuano, anche oggi, grazie alla convinzione che alla fine la politica permetterà a tutti di non pagare il conto. Quello lo pagano i cittadini, con calma.



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