martedì, settembre 22, 2009

Obama cerca di censurare blog e video ed i media tacciono

Una querela, in Italia, infiamma stampa e televisioni, ma una legge che permette al governo di censurare a volontà libri e cinema viene a malapena menzionata.

Vi piacerebbe che Berlusconi avesse il diritto di vietare la pubblicazione di un libro, soltanto perche’ parla di un politico? O che il quotidiano Repubblicapotesse scrivere sul governo, anche senza tener conto dei fatti, ma fosse illegale trasmettere un documentario che parla di politica? Benvenuti nella Nuova America: l’amministrazione Obama sta interpretando la legge in questo modo e cercando di passarne altre simili. In Italia, nessuno ne parla. Sui nostri media, impegnati ed imparziali, dove ogni starnuto di Bush veniva considerato al pari dell’invasione nazista della Polonia, il puro e semplice tentativo di vietare la pubblicazione di libri e documentari passa sotto silenzio. Negli USA, nel frattempo, si è scomodata la Corte Suprema, mentre giornali e TV tacciono. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è la censura governativa scattata sul documentario “Hillary: The Movie“. Si tratta di un lungometraggio prodotto da Citizens United, un’associazione non-profit conservatrice; è estremamente critico di Hillary Clinton e non esistono molti dubbi sullo scarso affetto che la produzione riserva alla ex-first lady. Sembra, in sintesi, una versione di destra dei capolavori propagandistici di Michael Moore. La differenza è che Moore non ha mai avuto problemi con le autorità federali, mentre la “nuova ” Casa Bianca ha minacciato la galera per i produttori del video, se avessero osato proporlo sulla TV via cavo. Ad inizio 2008 gli spot sul documentario erano già stati vietati in televisione dalla commissione elettorale, perché vennero ritenuti “propaganda elettorale non autorizzata” che avrebbe potuto interferire con le primarie del partito democratico. In seguito, la comissione elettorale e il governo federale hanno minacciato 5 anni di galera ai produttori, se il documentario fosse stato trasmesso via cavo, in pay-per-view. Il fatto sarebbe stato già grave e discriminatorio di per sé e la causa sembrava , ma ad Aprile 2009 il dream team obamiano è riuscito in un clamoroso autogol. Malcolm Stewart, il nuovo Solicitor General (avvocato generale) nominato da Obama, non ha trovato di meglio che sostenere che il governo ha il pieno diritto di bandire e censurare ogni pubblicazione che ritenga di natura politica. Ora, il Primo Emendamento della costituzione è una delle architravi della libertà americana, il primo dei diritti civili ed è molto chiaro: il diritto di parola, soprattutto nella sfera politica, è intangibile, per quanto abominevoli sano le opinioni espresse. Il Primo Emendamento è spesso servito a coprire numerosi abusi, ma la Corte Suprema non ne ha tollerato il ripudio esplicita ed ha preso un provvedimento eccezionale. Ha ordinato ai legali della difesa di ridefinire il caso; in questo modo, invece di chiarire la costituzionalità dei limiti di una sezione della legge elettorale, la Corte intende ristabilire il principio generale della libertà di parola anche in periodo elettorale. Malcolm Stewart non è più Solicitor general, ma la bomba è esplosa.

RIMEDIO PEGGIORE DEL MALE? La radice del problema è la serie di recenti leggi di riforma dei finanziamenti elettorali. La principale è il Bipartisan Campaign Reform Act del 2002, meglio noto come il McCain-Feingold Act. Il senatore repubblicano McCain ed il liberal, ossia socialdemocratico, Russ Feingold sono stati gli sponsor di un nobile tentativo di limitare l’influenza delle lobby aziendali e dei sindacati nelle campagne elettorali. Sono stati imposti limiti ai finanziamenti elettorali ed è scattato il divieto, per aziende e sindacati, di finanziare messaggi diretti ad attaccare o a sostenere candidati alle elezioni, per un periodo fra i trenta ed i sessanta giorni. L’autorità di specificare quali messaggi costituiscano propaganda politica è stata affidata ad un’agenzia governativa, la Federal Electoral Commission (FEC). Gli avversari della legge e sostennero che si stava concedendo a politici e burocrati il potere di censurare determinati gruppi di persone, quando il materiale riguarda i politici stessi, mentre i limiti alla spesa e le nuove regolamentazioni avrebbero favorito i grandi interessi, con le risorse per affrontare la burocrazia, ed i politici già al potere, che godono di “pubblicità gratuita sui media. Vennero definiti lacché delle corporations. Dopo soli sette anni, i difetti della norma sono evidenti: i limiti ai finanziamenti elettorali si sono rivelati fallimentari ed hanno paradossalmente favorito gli individui molto ricchi, le grandi aziende e le organizzazioni di massa, scoraggiando chiunque altro dall’intervenire. Adesso emergono anche gli effetti perversi dei limiti alla propaganda politica. La parte più contestata è il divieto di pubblicare materiale che sia finanziato in tutto od in parte da una “corporation”, ossia un’azienda. Il problema è l’inevitabile l’interpretazione data da politici e burocrati. In senso stretto, ad esempio, quasi ogni libro che non sia pubblicato a spese dell’autore viene finanziato da una corporation: la casa editrice. Ogni film ed ogni documentario hanno una pletora di finanziatori che non sono persone fisiche: la casa di produzione, il distrbutore che ha dato anticipi, il conglomerato dei media che ne acquista i diritti per l’uscita in DVD. Di conseguenza, la FEC è libera di considerare ogni lavoro che parli di un politico, soprattutto sotto elezioni, come una potenziale fonte di contributi elettorali non controllabili e di conseguenza si arroga il diritto di autorizzare o vietarne la pubblicazione. A decidere cosa sia una forma di espressione esente da censura e cosa sia invece propaganda, inoltre , è la FEC stessa, con l’eventuale copertura dell’amministrazione. I documentari sono ad esempio teoricamente esenti dalla legge; si tratta di una scappatoia impiegata abbondantemente da Michael Moore e che è stata invece preclusa dalla FEC ai produttori del documentario su Hillary Clinton. Una legge che si proponeva di migliorare la democrazia ha quindi fornito al governo i mezzi per minare la libertà di stampa. Mentre l’amministrazione Bush, con tutte le sue colpe, non ha mai fatto uso della norma, l’Amministrazione Obama ha dimostrato di non avere alcun problema a censurare le voci non gradite.

OBAMA PEGGIO DI ALFANO? – Il caso getta una luce ancora più inquietante sulla libertà di espressione su Internet. Un impiego estensivodelle leggi vigenti metterebbe a rischio l’attività politica su Internet, dove il confine fra informazione e attivismo non è mai stato lungo le linee tradizionali. Il governo Obama e la FEC hanno già sostenuto che le norme darebbero loro il diritto di intervenire e censurare blog e siti colpevoli di attività politica a ridosso delle elezioni; considerando che negli USA il ciclo elettorale è pressoché continuo, si comprende la gravità di una simile affermazione, su cui di recente si sta cercando di effettuare una precipitosa retromarcia. I media americani, in teoria sempre pronti ad insorgere contro ogni violazione della libertà di parola, hanno reagito soltanto debolmente. In parte, si tratta del pregiudizio positivo nei confrontidi Barack Obama, ma esistono motivazioni più sostanziose. Innanzitutto radio, televisioni e giornali registrati sono infatti esenti dalle regolamentazioni del McCain-Feingold; godono quindi di un privilegio concesso loro dalla legge, a scapito di chiunque altro. Questo significa che i media sono ancora liberi di spendere qualsiasi somma, appoggiando o dando l’assalto ad un candidato, senza che la commissione elettorale possa intervenire. Chiunque abbia avuto il piacere di una trasmissione con Santoro o Bruno Vespa quali conduttori dovrebbe accoglier econ una sana dose di scetticismo l’idea che i media siano naturalmente imparziali. Un’ipotetica stretta amministrativa di Obama su Internet libererebbe i media tradizionali da concorrenti temibili. Al confronto, il Decreto Alfano sembra decisamente materia per dilettanti. Concedere potere ad una burocrazia governativa si è rivelato un rimedio peggiore del male. Ancora una volta, la legge delle conseguenze inattese smentisce l’efficienza dell’approccio interventista ad un problema: norme nate con le migliori intenzioni vengono sistematicamente applicate per gli scopi peggiori. Non si capisce perché insistiamo a chiamarla “legge delle conseguenze inattese”: dopo decenni, le conseguenze dello statalismo dovrebbero essere quasi scontate.


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