lunedì, aprile 12, 2010

Il salvataggio greco è una condanna per l'Europa

Il piano di salvataggio greco, nella sua ultima incarnazione è una sciagura per l'Unione Europea, sia che abbia successo sia che fallisca. La bozza di accordo mina il principio alla base del patto di stabilità, permettendone la violazione negli anni a venire, in cambio di una partecipazione al salvataggio greco. Per un piatto di lenticchie si gettano a mare le basi dell'euro e uno dei pochi motivi per cui la moneta comune aveva una utilità economica e sociale.

Non si vuole discutere qui delle obiezioni di principio o giuridiche al salvataggio greco. Lasciamo da parte i dubbi sull'esplicito divieto da parte della BCE di salvare un governo inadempiente; non discutiamo dell'equità di un accordo che imporrà ai tedeschi, che vanno in pensione a 67 anni e reduci da un decennio di moderazione salariale, di salvare i dipendenti pubblici greci, felici pensionati a 61 e responsabili di una esplosione della spesa pubblica ed assistenziale degna di una cleptocrazia del Terzo Mondo.

Potremmo anche dimenticarci del pessimo segnale inviato alle nazioni in difficoltà: invece di tagliare le spese, indebitatevi pure, perché qualcun altro pagherà per tutti. Il problema è che, stavolta, questo segnale è quasi diventato politica ufficiale della UE: Olli Rehn, il commissario europeo all'Economia, ha infatti suggerito che il costo del pacchetto d'aiuti verrà distribuito proporzionalmente fra gli stati membri, ma che ai più deboli verrà riconosciuto un "credito" quando si tratterà di valutare i rispettivi deficit. Come nel Medioevo era sufficiente versare un obolo e venivano rimessi i peccati, così pare che ora sia sufficiente contribuire al salvataggio di un'altra nazione per poter delinquere impunemente.
Immaginiamo la lezione che ne trarranno Irlanda e Spagna: gli irlandesi hanno applicato rigorose politiche di risparmio e taglio dei costi, gli spagnoli al momento stanno sperperando decenni di prudenza fiscale. Se la ricompensa per la rettitudine di bilancio è quella di ritrovarsi a pagare per gli altri e se basta fingere di contribuire al salvataggio di un altra nazione in difficoltà per potersi comprare l'immunità da ogni sanzione, perché sforzarsi? Perché non trasformarsi tutti in piccole Atene, aspettando che Berlino alla fine, paghi il conto?

La disciplina di bilancio di Maastricht è probabilmente uno dei pochi risultati inequivocabilmente dell'intera costruzione europea: ha costretto sino ad ora delle classi politiche incapaci di disciplina a limitare ruberie e l'acquisto di voti senza rovinare in maniera irreparabile i propri sudditi, pardon contribuenti, in maniera suicida. Da questo momento in poi, è chiaro che abbiamo scherzato, con buona pace degli sforzi italiani per non sbracare e di quelli tedeschi per mantenere un minimo d'ordine. Non che questo faccia particolare differenza per la Grecia: lo spreco in spesa pubblica, e assistenzialismo anziché in infrastrutture e riforme, delle condizioni uniche generate dall'euro degli ultimi dieci anni rende quasi inevitabile una ristrutturazione del debito, o un crollo delle condizioni di vita. Il dubbio è soltanto sulle modalità in cui questo avverrà e quanta parte di tali costi verranno fatti sopportare ai contribuenti di altre nazioni, invece che ai greci che si sono goduti la festa.

Da notare, per inciso, come ai nostri media cosiddetti "economici" sia del tutto sfuggito questo particolare. Capita, quando si difende il diritto al sussidio più della libertà d'impresa, ma si ha il coraggio di chiamarlo "capitalismo".

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