lunedì, maggio 03, 2010

La Grecia e il sacco di Bruxelles

Quello greco non è un fallimento, anche se  forse sarebbe meglio che lo fosse. Politici e "banchieri" parastatali stanno infliggendo al contribuente europeo una replica dell'inutile rapina perpetrata ai danni di quello statunitensi. 

Il piano di salvataggio per la Grecia presenta numerose zone d'ombra. Anche se fosse perfetto, tuttavia, sarebbe  controproducente almeno per uno degli obbiettivi che si prefigge:  quello di scoraggiare i comportamenti che ci hanno portato a questo punto.  
 La severità delle condizioni imposte alla Grecia potrebbe risolvere uno dei punti critici di cui si era già parlato:  scoraggiare gli stati più indebitati dell'Unione a cercare il salvataggio a spese europee. Impieghiamo il condizionale perché il piano di rientro greco è severo, ma non certo eccezionale e, quindi, potrebbe non essere un deterrente sufficiente. L'Irlanda ha tagliato del 12% per cento le retribuzioni pubbliche, senza avere chiesto aiuti all'estero. La Lettonia ha attuato misure paragonabili , quando  l'anno scorso ha chiesto aiuto ad IMF ed Unione Europea. Rimane quindi da vedere se altri governi non troveranno politicamente più accettabile passare il conto a Bruxelles, invece di tagliare e riformare per conto proprio. Il denaro dell'IMF arriva immediatamente, le promesse di riforme economiche possono essere poi trattate come promesse elettorali, quando la nazione debitrice è sufficientemente importante da minacciare di trascinare il sistema con sé in caso d'insolvenza. 

Il punto cruciale, al momento, è il gigantesco regalo ai creditori di Atene.  Nel piano di salvataggio, infatti, pagano tutti, con una eccezione. I contribuenti dell'Unione europea forniranno il denaro fresco; i greci pagheranno rinunciando a parte del tenore di vita di cui hanno sinora goduto a credito. Chi non paga, per il memento, sono gli investitori che si sono illusi potesse esistere rendimento senza rischio; quegli investitori, che hanno acquistato debito greco solo perché rendeva di più di quello tedesco ed era denominato nella stessa divisa, preferendo dimenticarsi di analizzare a fondo le differenze fra le varie nazioni e sperando che la Germania, garante politico dell'Unione, sarebbe divenuto anche garante economico in caso di problemi. Una speculazione che è andata bene agli stessi politici tedeschi, fino al punto che i maggiori creditori esteri di Atene sono proprio banche ed istituzioni finanziarie francesi e tedesche, in gran parte d'origine parastatale. 

Per evitare una magra figura ai politici lottizzati che gestiscono le Landesbanken, o agli amici degli amici nel giro delle grandi scuole francesi, si preferisce invocare l'emergenza assoluta e la maligna speculazione tipica dei mercati selvaggi del capitalismo anglosassone. Peccato che qui,  di mercato, se ne veda poco: gli attori sono tutti o quasi politici, o politicizzati. Il mercato bancario è tutto, fuorché un mercato libero: la politica, nella sua accezione pura o in quella mediata dalle autorità di vigilanza, impone i propri obbiettivi, decide i partecipanti al mercato e decide il prezzo e la quantità della liquidità disponibile, attraverso l'attività della  Banca Centrale. In un mercato più libero, come quello degli hedge fund, chi si comporta in maniera tanto sconsiderata di solito salta, lasciando spazio a concorrenti più abili nella gestione del rischio. In quello bancario, invece, la classe politica corre al salvataggio, a spese del contribuente, come sta avvenendo in Grecia e come già avvenuto nel caso delle banche USA, dove i creditori sono stati inutilmente salvati. 

Nei giorni precedenti all'intervento del FMI si era cominciato a discutere di un'opzione che avrebbe obbligato i creditori a sopportare parte del peso della ristrutturazione: estendere la scadenza dei titoli di stato, riducendo il peso immediato delle scadenze più imminenti dal bilancio statale greco. Una ristrutturazione  del genere avrebbe causato una perdita economica di circa il venti percento del valore dei titoli, allineandolo ai prezzi di mercato, prevalenti; al contrario di una dichiarazione di fallimento vera e propria, avrebbe permesso di continuare a  impiegare i titoli greci come garanzia per i prestiti in banca centrale e di non realizzare immediatamente a bilancio le perdite accumulate. Si tratta di una manovra analoga alle proposte di John Taylor per la riforma finanziaria americana: niente bailout, ma un regime di amministrazione controllata che allinei le procedure legali  alla realtà finanziaria, permettendo di risolvere le insolvenze bancarie in maniera analoga a quelle industriali senza per questo danneggiare l'intero sistema economico e lasciando che le perdite vengano ripartite fra gli investitori.


Nel caso di uno stato sovrano, esistono paralleli con la situazione attuale.  Il più recente  è quello dell'Uruguay nel 2003, che  poco dopo un intervento del FMI ha proposto uno scambio simile a quello discusso nei riguardi della Grecia. La differenza è che i creditori non erano creature politiche della nazione che fornisce la maggior parte dei fondi e che non vuole rivelazioni sul pessimo funzionamento del proprio sistema bancario che non parla inglese. Fra due anni, forse, anche noi arriveremo ad una soluzione simile, ma nel frattempo i cittadini europei, greci o meno, avranno pagato e sofferto molto più del necessario.


Update: ci segnalano che, per una volta,  anche i media italiani si sono accorti che esistono soluzioni diverse dal salvataggio a spese nostre. Ode a Luigi Zingales.

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