martedì, marzo 13, 2012

Chi la fa l'aspetti: le regioni spagnole si ribellano al patto di stabilità?

Nei giorni scorsi il governo spagnolo ha annunciato che non rispetterà  alla lettera i termini dell'accordo intergovernativo sui piani di rientro dal debito. La scelta di prendere in considerazione il deficit strutturale invece di quello congiunturale ha i suoi meriti, anche se la questione forse evade il nocciolo del problema. 
Un'altra conseguenza, non del tutto inattesa, è che le regioni spagnole potrebbero pretendere di non rispettare  il patto di stabilità interno, adducendo le medesime ragioni del governo centrale nei confronti dell'Europa.  
La questione è tutt'altro che secondaria,  dato che gli enti locali sono già un buco nero di debiti inespressi o malamente occultati oltre che una fonte estremamente rilevante di spesa fiscale. I rischi di un conflitto fra centro e periferia sono oltretutto tutt'altro che remoti: valga per tutti l'esempio della Catalogna, la regione più industrializzata e sviluppata in Spagna, che a Febbraio ha ammesso di avere un deficit pari al 3.29%,  sforando  non soltanto il limite dell.'1.6% del rapporto fra deficit e PIL, ma anche le proprie stesse previsioni al 2.66% . Con queste premesse, non è difficile immaginare le potenzialità di avvitamento della situazione. 
E' vero che la situazione macroeconomica potrebbe consigliare cautela nei piani di austerità; d'altro canto, la mancanza di un accordo vincolante e credibile lascia mano libera a politici che ancora coltivano l'illusione che la normalità sia quella del 2007; nei PIGS (dove la I sta per Irlanda)  si trattava invece di una bolla nella quale la domanda era artificiosamente gonfiata dal ricorso eccessivo al debito, che finiva a  finanziare consumi correnti.  In questo contesto, i  provvedimenti di sostegno alla domanda non possono e non devono puntare a riportare la domanda a quei livelli, senza prima aver profondamente riformato il  sistema produttivo, altrimenti il risultato sarebbe quello di perpetuare la bolla, stavolta con denaro del contribuente invece che di creditori poco accorti. 
Finché dura l'illusione che basti solo un altro po' di "stimolo",  l'appello alla "crescita" e l'opposizione al rigore rischiano di essere interpretate da chi controlla i cordoni della borsa  come una giustificazione permanente alla spesa in deficit, senza preoccuparsi delle conseguenze, che il biennio 2008-2010 ci ha mostrato con terrificante chiarezza. 



lunedì, marzo 12, 2012

Spagna, il debito pubblico nascosto

E' ormai acclarato come la Spagna abbia un serissimo problema di peggioramento delle finanze pubbliche. Mentre l'Italia ha un alto debito statale, eredità di un passato di spese sconsiderate, la Spagna parte da una situazione migliore ma  in rapidissimo peggioramento.  I dati riportati dal  Financial Times rivelano come  in realtà la situazione sia ancora più problematica di quanto le statistiche ufficiali rivelino.


La misura standard impiegata per il conteggio del debito spagnolo esclude infatti i debiti derivanti da fatture scadute e non ancora pagate. SI tratta di più di 90 miliardi di debito, riconosciuti quale debito ma non inclusi nelle statistiche ufficiali: 30 miliardi di fatture non pagate per gli enti locali equivalenti ai comuni italiani; 18 miliardi per i governi regionali; 12 miliardi di fatture sanitarie non pagate ed infine 32 miliardi  di "altri debiti" della stessa natura  

La somma equivale a circa il 8.7% del PIL spagnolo del 2010.  In Italia il dato equivalente per  l'intero settore pubblico, è di 80 miliardi, ossia meno meno del 5% del  PIL, pur includendo il governo centrale al contrario che per la statistica  spagnola; è stabile o in calo ed è in parte incluso nelle statistiche ufficiali.
Un  altro elemento preoccupante è quello dei  tempi di pagamento, lievitati a  500 giorni ed ancora  in salita - essenzialmente, molti enti semplicemente non pagano .

A questo si deve agigungere l'entità dei debiti del settore privato, molto più elevata che in Italia ed il fatto che la quota di tale debito finanziata all'estero è più elevata che quella italiana.

La crisi finanziaria degli ultimi anni ha reso familiari al grande pubblico concetti quali deficit, spread e l'importanza del rapporto fra debito e PIL. Quello che a volte si trascura è quanto accurate siano queste misure e quanto riflettano il vero fardello che stiamo lasciando in eredità ai nostri figli.

domenica, marzo 11, 2012

Sul fiscal compact, Germania e Spagna errano simmetricamente

L'ammirato socio espone lucidamente alcune perplessità sul Fiscal Compact, ossia il patto di stabilità a livello europeo e si chiedendosi, a titolo d'esempio, perché dovrebbe essere la Spagna a pagare per i danni causati dalla recessione e non da proprie scelte. La triste risposta è che nessun altro pagherà per loro, tranne un ricco zio teutonico che, consapevole dei propri precedenti errori, adesso pretende austeri pentimenti. Possiamo discutere della lungimiranza del suddetto zio, ma visti i precedenti della Germania orientale e del Mezzogiorno italiano, non saprei se augurar loro buona fortuna. In ogni caso, siamo nel reame della politica e non in quello dell'economia, dove possiamo lamentarci a volontà delle colpe tedesche, che sono numerose anche se non sono quelle comunemente additate. Rimane il punto che se si vuole che il governo tedesco paghi il conto, si deve purtroppo accettare che detti il menu. Se si preferisce scegliere, e sarebbe preferibile, si deve pagare di tasca propria o rifiutarsi di farlo, chiamando il bluff tedesco e probabilmente accettando ancora più dure ristrutturazioni nel breve periodo.

E' probabile che io ricada, spiritualmente se non geograficamente, nel novero degli austriaci ai quali sarebbe concesso d'astenersi dal commentare la bontà del principio di valutare il deficit strutturale, depurato dagli effetti della recessione, invece che il puro rapporto fra deficit e PIL, perché la nostra risposta sarebbe già scontata.
Eppure, tale principio potrebbe invece avere una sua validità, se il patto fosse approvato da contraenti con bilanci in equilibrio e livelli di debito ridotti e omogenei. In questo caso, l'impatto fiscale di una recessione potrebbe essere attutito da un bilancio nazionale in grado di sopportare l'accresciuto debito senza allarmare i creditori.
Questo, purtroppo, non è il nostro caso: ci si trova di fronte a governi che hanno perseguito politiche fiscali ed economiche eccessivamente accomodanti nei periodi sbagliati del ciclo, oppure che si sono rifiutati di accettare la necessaria implicazione di un'unione monetaria, ossia un'economia flessibile ed innovativa, meno soffocata da lacci e lacciuoli governativi.
In assenza delel necessarie riforme, l'aggiustamento avverrebbe tramite un'ondata di ristrutturazioni aziendali (e bancarie) che riporti equilibrio nei livelli di debito e rigeneri drasticamente la gestione nelle aziende gestite meno prudentemente.
Tale soluzione è il meno peggio dal punto di vista economico, ma è inaccettabile da quello politico: nel caso concreto, sia in Spagna che in Germania la radice del problema creditizio sono le banche di proprietà statale o di enti locali, i cui dirigenti sono inesorabilmente legati a filo doppio con la classe politica. I banchieri tedeschi hanno operato scelte poco felici, prestando a debitori nella periferia indegni di credito, quali molte Cajas spagnole, il governo greco e numerosi enti locali iberici ed italioti. Il necessario fallimento di questi debitori sarebbe insopportabile dal punto di vista politico e di conseguenza si è ricorso a "salvataggi" a vantaggio di creditori che meriterebbero d'essere falcidiati e dirigenti che meriterebbero il licenziamento, a spese di contribuenti e cittadini che ne pagano le conseguenze.

L'unico modo per uscirne sarebbe affrontare la realtà, esercizio troppo difficile per la nostra classe politica. Meglio pretendere che la colpa sia delle banche cattive e che i buoni politici stiano cercando solo di rimediare al danno, invece che ammettere che cercano di nascondere sotto il tappeto una fiaccola accesa, sperando che qualcuno prima o poi rovesci dell'acqua.

sabato, febbraio 25, 2012

Investimenti ai minimi storici. Se dev'essere spesa,almeno sia quella meno dannosa

Si fa notare oltreoceano come gli investimenti, statali come privati, sono vicini al minimo storico.
Là situazione italiana è se possibile ancora peggiore.
Chi scrive è scettico sulle virtù taumaturgiche dell'interferenza governativa sulle scelte di investimento, soprattutto perché in condizioni normali è difficile che un governo spenda i denaro del contribuente meglio di coloro a cui li estorce. Dato che tuttavia siamo in democrazia e che la maggioranza ha già deciso di non ridurre l'esproprio, diviene essenziale cercare di ridurre al minimo i danni. Da questo punto di vista, il danno maggiore deriva dall'impiego delle risorse fiscali per sostenere la spesa pubblica corrente sugli attuali, insostenibili livelli. In massima parte siamo di fronte a spese non soltanto inutili, ma dannose. Nel caso che la spesa pubblica forse diretta verso investimenti, avremmo un risultato meno negativo. Le economie occidentali soffrono di un difetto conclamato di investimenti in infrastrutture; il settore privato non può investirvi, perché limitato nelle risorse dall'eccesso di tassazione e nelle prorttive di profitto da leggi restrittive e dalla concorrenza sleale derivata da monopoli statali o concessi ad affaristi amici. Finché permane questa triste situazione, solo il settore statale può investire in infrastrutture. La soluzione ideale sarebbe quella di liberare risorse con una riduzione del peso della tassazione e della regolamentazione e di rendere finalmente concorrenziale il mercato delle infrastrutture. In attesa di qualcosa che potrebbe non accadere mai, è ora di dire perlomeno basta ai sussidi al consumo. Se si vogliono buttare i soldi del contribuente, conviene almeno farlo tramite investimenti che al settore privato non sono consentiti e che avranno quindi almeno un qualche ritorno positivo.

domenica, gennaio 29, 2012

accordo sul debito, una tragedia mal scritta

Esiste ben poca suspence nelle ultime ore di negoziazioni fra il governo greco e le banche creditrici. I veri protagonisti sono due temi di ci nessuno ufficialmente su occupa, la banca centrale europea e i CDS. La Grecia e fallita due anni fa. Sono stati spesi decine di miliardi di euro per rimandare l'inevitabile e se ne spenderanno ancora. Crisi, verso accordo su Patto Ue - Top News - ANSA.it

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venerdì, gennaio 13, 2012

Evasione e Cortina: giusto pagare, ma non giochiamo agli apprendisti stregoni dell'oppressione


Una premessa: trovo sgradevoli i furbi che giocano ai finti poveri, soprattutto quando sono tanto stupidi da andarsene a spendere il bottino in località di lusso. Un’operazione come quella avvenuta a Cortina ha almeno il merito di coadiuvare la selezione naturale, migliorando forse il buon gusto dei superstiti. Trovo tuttavia che non sia da "liberali alle vongole" avere dubbi, proprio in quanto liberali, sul carattere quasi sacrale assunto dalla lotta all'evasione. Il caso di Cortina ha già suscitato considerazioni giustamente allarmate per la manipolazione mediatica e la rischiosa ’istigazione all'invidia sociale;più in generale, i metodi impiegati rischiano nel lungo periodo di essere peggiori del male, soprattuto nella prospettiva di chi desidera una società libera. Un liberale deve adattarsi talvolta a difendere l'indifendibile, per tutelare la libertà tramite il principio che i mezzi non giustificano i fini, soprattutto quando i fini sono tutt'altro che limpidi.Si sostiene ad esempio che la lotta all'evasione sia necessaria per ridurre in seguito la pressione fiscale e l'invadenza burocratica; il nobile fine giustificherebbe mezzi talvolta discutibili. Lo slogan in voga diventa "pagare tutti per pagare meno". Quest'argomentazione suona dubbia. Immaginiamo, come esperimento mentale, che l'evasione venga istantaneamente debellata, senza effetti secondari. Si alzi chi crede davvero che la nostra classe politica ridurrebbe le aliquote fiscali, invece che aumentare la spesa con il consueto mix di sussidi, protezioni e spese assistenziali alle aziende ed alle categorie sociali con maggiore influenza elettorale. Si tratta, in fondo, della triste storia avvenuta ad ogni aumento delle entrate fiscali in Occidente. Il problema di fondo è l’inerente conflitto d’interessi fra la classe politica ed i contribuenti in una democrazia assistenziale, quando si tratta di equilibrio dei conti. Per il contribuente la priorità è la riduzione del disavanzo fra entrate ed spese, minimizzando se possibile entrambe le grandezze, in modo da ridurre l’interferenza statale nelle scelte individuali. Per chi gestisce la macchina statale, l'aumento delle risorse intermediate è al contrario un bene di per sé, almeno per due motivi. Innanzitutto all'aumentare delle entrate aumenta il denaro di cui politici e burocrati decidono la destinazione, aumentando quindi il proprio potere sui privati cittadini. Una riduzione delle spese, al contrario, non porta ad alcuna utilità. In un sistema come quello italiano quasi tutti sono sia contribuenti che sussidiati; persino se un particolare individuo ricevesse esattamente quanto ha versato e non vi fossero costi per la gestione della redistribuzione, la gestione del suo reddito sarebbe grandemente in balia di scelte altrui, sebbene ne paghi comunque personalmente il prezzo. E’ per questo che la riduzione contemporanea di tasse e spese non è quindi interessante per la classe politica o burocratica: il calo della quota di PIL che passa fra le maglie della redistribuzione costituisce per essa un danno diretto ed immediato. Le conseguenze possono essere devastanti: dove lo Stato intermedia una quota sufficientemente grande del reddito nazionale, non la produzione e l'innovazione, ma la spartizione del bottino fiscale e la riduzione di quanto da pagare diventano le cause principali di prosperità individuale, con effetti devastanti sulla crescita che tanto desideriamo a parole. In secondo luogo, un aumento dei programmi di spesa e dei sussidi mirati rende giustificabile agli occhi dell'elettorato un aumento delle dimensioni della burocrazia necessaria a gestire tale intermediazione e quindi un aumento dei posti di lavoro a disposizione per i propri simpatizzanti e clienti. Il prestigio sociale dei burocrati come dei politici aumenta all'aumentare del denaro a disposizione; di nuovo, i migliori non produrranno, ma cercheranno rendite e posti garantiti, in modo da non essere fra le pecore, ma fra i lupi. Aumentano così la sclerosi della società e il regresso ad un mondo premoderno.È ingenuo pensare quindi che la classe politica scelga spontaneamente la strada della riduzione del prelievi o della semplificazione, che tanto ridurrebbe il proprio ruolo e la propria influenza. E’ necessaria una costante vigilanza dei contribuenti elettori. Di conseguenza, per un liberale la lotta all'evasione fiscale dovrebbe essere giudicata come ogni normale operazione di polizia e non come una santa crociata, prioritaria a ogni altra iniziativa; è persino possibile che tale crociata diventi una distrazione dall’obbiettivo di mantenere efficiente la spesa e minimizzare la pressione fiscale e che apra la porta ad abusi di potere. Oltre ad essere problematica dal punto di vista dei fini, l'appoggio a questa modalità di caccia all'evasore è dubbia anche da quello dei mezzi. Trovo curioso che chi condona la resistenza a leggi che violano la libertà individuale in tema religioso, sessuale o medico, ritenendo in errore permanente le autorità, ritenga che tale libertà possa essere violata facilmente in altri contesti perché in questi casi l'autorità divenga magicamente benevola. È naturale per ogni governo cercare di risolvere ogni problema richiedendo un aumento di prerogative, spesso con le migliori intenzioni, adducendo esigenze d'emergenza. Chi si dice liberale conosce l'obiezione a tali argomenti. Le misure temporanee diventano permanenti, quelle limitate vengono estese e diventano generali, poteri discrezionali dati a un governo rispettoso dell’individuo per nobili fini diventano armi liberticide nelle mani del sucessivo governo. Il controllo assoluto delle transazioni finanziarie permette una violazione della privacy quasi totale e si presta ad abusi immani; molti liberali hanno giustamente criticato le norme lesive della privacy contenute nelle leggi antiterrorismo, ma qualcuno vuole accettare provvedimenti identici per contrastare l'evasione fiscale, che non minaccia certo la vita e la libertà quanto i responsabili delle stragi delle Torri Gemelle o di Atocha.Mi si permetta di dubitare che in Italia avremo sempre governi, burocrati o pubblici ministeri che si asterranno dall'impiegare spurie accuse di evasione come pretesto per acquisire tutte le transazioni finanziarie di avversari ideologici e quindi ottenere informazioni utili per ricatti, calunnie o intimidazioni; mi si permetta di dubitare che non s'impiegherà la gogna mediatica a fini di esproprio o di lotta politica. Non comincio neppure a discutere degli abusi che verrebbero commessi da parte di funzionari infedeli, venali o corrotti in possesso di tali informazioni.Non è difficile immaginare quante informazioni sulla nostra vita privata un governo reazionario potrebbe inferire analizzando i nostri estratti conto, fra poco omnicomprensivi. Immaginate cosa potrebbe fare un governo interessato ad imporre una propria variante di Stato etico, sia esso di sinistra o di destra, con una tale base dati a disposizione: quali libri vi ostinate a comprare, quali brutte abitudini mantenete, in quali locali sospetti vi avventurate; quella parcella ad un medico in odore di aborti, quell'anestesista sospettato di aiutare a porre fine alle sofferenze dei propri cari, quelle donazioni a cause sospette diverrebbero immediatamente segnali per un governo, o peggio per una macchina burocratica intenta a mantenervi sulla retta via. Certo, potreste fare tutte queste cose all'estero, se vi fosse ancora pemesso esportare il denaro con cui pagarle, ma probabilmente vi saranno già norme per speculatori e disfattisti facilmente applicabili a qualunque indesiderabile.Ricordiamoci che uno dei cavalli di battaglia di Mussolini fu la lotta ai "pescecani", ai profittatori di guerra, oltre che ai facinorosi che minacciavano la quiete delle strade e la proprietà privata. Ad oggi si sentono echi della medesima retorica, aggiornata ai nostri tempi sociali. La proprietà minacciata non è più quella borghese, ormai ridotta a mero usufrutto a discrezione della volontà collettiva dalla nostra Costituzione; è quella quota dei due terzi della nostra vita che lo Stato pretende quale proprio diritto divino. La classe dirigente nominalmente liberale che governava l'Italia si illuse che il fine giustificasse i mezzi, salvo assistere inorridita all'uso sempre più perverso e indiscriminato di provvedimenti che aveva creduto limitati e temporanei. Potremmo essere ancora in tempo per non ripetere lo stesso errore.

lunedì, gennaio 09, 2012

Santander e depositi: crepe in Spagna e Italia

Ricordate il vecchio film "L'aereo più pazzo del mondo"? Durante il disastro, una delle hostess continua a ripetere "niente panico" fino a quando, di fronte all'anarchia, cambia improvvisamente, ma senza perdere l'aplomb "Niente panico, niente panico... OK, panico".


Abbiao ora due elementi per preoccuparci dell'arrivo di un simile momento anche per due dei tre malati più grandi d'Europa: Italia e Spagna. La Francia, per ora, continua a rifugiarsi in ragionamenti sin troppo simili al mantra italiano del 2009-2010, ossia "noi ne usciremo meglio di altri", anche se a giudicare da alcuni dati microeconomici e dalle proposte demenziali di Sakrozy sulla Tobin Tax potremmo essere portati a dubitarne.


Cominciamo dai dati sui depositi in Italia e Spagna: i deflussi cominciano a diventare rilevanti anche in Italia, mentre rimangono a livelli elevati in Spagna. In due mesi il sistema bancario spagnolo ha perso 32 miliardi di depositi, quello italiano 37 miliardi in un mese; consigliamo al riguardo attenta lettura dell'ottimo Phastidio. A parziale consolazione, si potrebbe ipotizzare che una parte di depositi si siano indirizzati verso BOT e Bonos emetti dai relativi governi. Sarebbe una ben magra consolazione per le banche, cannibalizzate agli stessi governi per cui stanno svenandosi per sostenere i risultati della aste di titoli di Stato e arginare così la salita dei costi di finanziamento dei rispettivi governi.


Rimanendo in Spagna, è interessante la manovra effettuata da Santander per riuscire a raggiungere i livelli di capitale richiesti dall'EBA. La banca spagnola ha sempre sostenuto di non avere bisogno di effettuare manovre straordinarie, ma che avrebbe ridotto le proprie quote di maggioranza in alcune consociate estere o venduto alcune partecipazioni in mercati minori. L'operazione non dev'essere andata del tutto come previsto, visto che si è trovata costretta a parcheggiare in extremis presso un'anomia istituzione compiacente il 4.41% del capitale di uno dei gioielli della corona, la propria consociata brasiliana. La quota è al servizio di un prestito convertibile detenuto dal fondo sovrano del Qatar, che scambierà il bond con azioni al più tardi nel 2013. Di conseguenza il "parcheggiatore" non si assume quasi alcun rischio; ci si deve invece chiedere il perché di tanta fretta da parte di Santander, che pur avendo di fatto un compratore sicuro si trova costretto a pagare ampie commissioni per rendere spostare capitale da un cono del bilancio ad un altro solo per soddisfare l'autorità di regolamentazione. Evidentemente, la situazione non è tanto rosea e tranquilla quanto dichiarato dal gigante bancario. Sospettiamo che l'attività di acquirente di ultima istanza dei titoli di Stato spagnoli emessi alle ultime aste cominci ad assumere un certo peso nella gestione di una delle poche realtà multinazionali iberiche, anche perché il coinvolgimento di Santander è sempre più cruciale per il buon risultato delle aste: nelle ultime due occasioni, una banca rimasta anonima avrebbe acquistato gran parte dei Bonos offerti, garantendo un ottimo risultato nonostante i bassi rendimenti pagati dal Tesoro spagnolo rispetto a quelli prevalenti sul mercato al momento dell'emissione. Ci si dovrebbe chiedere, fra parentesi, per quanto tempo le autorità di vigilanza inglesi, brasiliane o americane guarderanno favorevolmente all'impiego di utili (o depositi) generati nei rispettivi mercati per sostenere il governo di Madrid.

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giovedì, gennaio 05, 2012

Valencia, o dell'altro buco nero spagnolo sommerso

La regione di Valencia, in Spagna, è prospera e relativamente avanzata, anche se provata dallo scoppio della bolla immobiliare in maniera più dura che altrove. Eppure, mercoledì ha mancato un pagamento di 130 milioni di euro ad una banca e pare si sarebbe salvata dal default solo grazie all'intervento di una banca spagnola, che dietro "sollecitazione" (leggi: pedata nel didietro) del governo centrale si sarebbe accollata il debito.

Perché il governo ha dovuto intervenire in maniera tanto indiretta? La Spagna è d fatto uno stato federale e, al contrario ad esempio della Germania, il governo centrale non garantisce il debito degli enti locali. La conseguenza è che il debito delle regioni non viene consolidato con quello nazionale, riducendo così il dato "ufficiale" impiegato nelle comparazioni a livello internazionale. Per ridurre il deficit e i dati sul debito, presentato all'Unione Europea, il governo centrale ha tagliato i trasferimenti agli enti locali, che invece di ridurre la spesa, hanno colmato il deficit ricorrendo al debito.
Il problema è che la spesa pubblica ed il debito a livello locale sono di dimensioni molto rilevanti: a seconda delle misure impiegate, le regioni controllano da un terzo alla metà della spesa totale. Inoltre, sono poco responsabilizzate, dato che il federalismo fiscale si applica alle spese, ma meno alle entrate: i politici preferiscono che sia il distante governo centrale a prendersi le colpe delle tasse, mentre essi godono dei benefici politici derivanti dalla parte assistenziale e clientelare della spesa pubblica; si tratta di un problema che noi italiani conosciamo bene e che avremmo conosciuto anche con il cosiddetto "federalismo fiscale" promosso dalla Lega Nord dopo la sua trasformazione nel campione del voto di scambio.
Il debito nascosto sta cominciando ad emergere, anche perché la spesa è ormai fuori controllo: lo sforamento di quasi 2 punti percentuali del PIL è dovuto quasi interamente alla riottosità regionale al taglio della spesa assistenziale.
Il governo si trova di fronte ad una scelta difficile: tagliare sul serio, o pretendere che il "modello spagnolo" stia continuando a funzionare davvero e che non sia un Mezzogiorno più abile a spendere il bottino derivante dalla spartizione dei fondi strutturali. L'episodio valenciano non fa ben sperare: il governo centrale è intervenuto per mantenere la finzione, sfruttando banche amiche ma rifiutandosi di garantire il debito, per non aprire il vaso di Pandora; vedremo per quanto a lungo questo rimarrà possibile.
E' vero che le due grandi banche spagnole sono molto solide, ma ci si deve chiedere quanto potranno ancora donare alla causa se, oltre a garantire il successo delle aste governative a colpi d'acquisti "strategici", dovranno anche finanziare a pié di lista i Bassolino iberici.

lunedì, gennaio 02, 2012

Perché i gay non dovrebbero preoccuparsi di Ron Paul e a destra dovremmo preoccuparci dei politici anti-gay

Ron Paul è il candidato libertario che, a sorpresa, sta acquisendo un ruolo rilevante nella corsa alla nomination repubblicana.  Di conseguenza, la stampa si è lanciata nel trovarne i punti deboli del candidato Paul, con un qualche risultato, in parte giustificato: le sue posizioni in tema di difesa e politica estera non sono certo allineate con quelle del partito e non particolarmente realistiche. La difesa è, il punto debole di una  parte rilevante del movimento libertario, come ha bene illustrato Stefano Magni.
Mentre una critica alle posizioni di politica estera di Paul è più che legittima e probabilmente ben fondata, molto meno lo è l'accusa di essere un bigotto anti-gay, derivante dalle ormai famigerate newsletter scritte da suoi sostenitori.
  Eppure, per il momento, non sembra che il suo appeal sia sceso particolarmente persino fra i  gay.
La ragione, ipotizzata da David Weigel su  Slate,   farebbe ben sperare sula maturità dell'elettore americano : Ron Paul può amare o non amare i gay e, prima di scagliare la prima pietra, vorremmo vedere la reazione di molti politici progressisti ad una trappola come quella di Cohen; resta il fatto, innegabile, di aver  lottato in Congresso perché possano vivere la propria vita, fino a quando non interferiscono con la libertà altrui. Ad esempio,  Paul ha votato a favore dell'ammissione di gay dichiarati  nell'esercito e contro una definizione a livello federale del matrimonio costruita in maniera tale da escludere la possibilità di unioni omosessuali.

La sua vicenda chiarisce, una volta di più, quanto la posizione liberale non solo sia probabilmente la più razionale, anche per chi non sia particolarmente appassionato alla causa, ma come non sia neppure la  tomba elettorale per un candidato di destra. Gli unici che hanno da guadagnare dal perseguitare le persone sin dentro la propria camera da letto sono quei politici che debbono far dimenticare agli elettori liberali e conservatori le proprie idee socialiste. 

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