E' sicuramente vero che i provvedimenti più importanti di liberalizzazione sarebbe meglio farli seguendo un metodo "bipartisan" e che, forse, in Italia questo sarebbe l'unico metodo per riuscire a realizzare una riforma liberale. Mario Monti, nel suo editoriale di ieri, espone un ragionamento sensato, ma con un notevole problema di applicazione. Il problema è che nel governo come in larghi settori dell'opposizione, si finge di non conoscere il significato del termine bipartisan, che non significa né "larghe intese" di trasformistica memoria, né la caduta del governo Prodi, né tantomeno una "resa senza condizioni" ai diktat del Bersani di turno in Parlamento.
Un approccio "bipartisan", se volesse seguire il metodo che viene definito da tale termine, implicherebbe un accordo sui singoli temi da parte dei leader di maggioranza ed opposizione. Tale accordo verrebbe finalizzato attraverso una serie di disegni di legge, presentati congiuntamente a firma di autorevoli esponenti di entrambi gli schieramenti parlamentari e votati in maniera palese dal Parlamento.
Il governo dovrebbe restarne, almeno formalmente ed almeno in Aula, al di fuori e dovrebbe ben guardarsi dal porre la fiducia. La "bipartisanship", infatti, si riferisce infatti alla sfera dell'azione parlamentare in un sistema bipolare. Parlamentare, si noti bene: avremmo un ritorno alle radici dell'istituto parlamentare, ultimamente ridotto alle funzioni di un "votificio" e che dovrebbe invece essere in teoria luogo di composizione e riconciliazione di interessi che in alcuni casi sono talmente importanti da coinvolgere gli opposti schieramenti in un sistema bipolare, fino a produrre una legislazione comune.
Un metodo di questo tipo avrebbe due enormi vantaggi: permetterebbe a maggioranza ed opposizione di dialogare, all0interno del Parlamento, su di un piano di parità, sancito in Italia anche dai numeri elettorali, senza la pressione e le "armi improprie" garantite dal controllo dell'attore governativo; eviterebbe che una delle due parti possa arrogarsi il merito delle riforme in via esclusiva, grazie alla paternità congiunta dei provvedimenti, iscritti nei termini delle leggi approvate, che renderebbe esplicito l'accordo.
Non sarebbe necessario né possibile alcun cambio di Governo: non ponendo la fiducia, l'iter della legge o del "pacchetto" di leggi non pregiudicherebbe l'esistenza del Governo; Governo che, d'altro canto, potrebbe rivendicare il merito di aver operato per favorire l'intesa e di aver successivamente applicato ed eseguito i dettati di legge in maniera efficiente, ma non potrebbe "metter cappello" sul lavoro parlamentare.
Le ipotesi previste invece da alcuni elementi nei due contrapposti schieramenti invece vanno in tre direzioni ben diverse, egualmente dannose sia per la Nazione che per le attuali tribù politiche che occupano Montecitorio.
La prima è quella della tentazione "neocentrista" o morotea: l'ennesimo compromesso storico in chiave trasformista, che sotto le spoglie dell'urgenza riformatrice celerebbe il desiderio di una modifica permanente della maggioranza parlamentare in chiave catto-socialista.
La seconda è l'ipotesi delle cosiddette "larghe intese": una Grande coalizione alla tedesca. Abbiamo visto il mediocre successo di una tale iniziativa: mischiando la necessità di un accordo su singoli provvedimenti con il controllo delle leve governative, si confondono due piani con il forte rischio di rendere il processo legislativo ostaggio degli equilibri di potere e poltrone nella sfera esecutiva.
La terza è la curiosa concezione di "collaborazione" di molti, troppi esponenti del centrosinistra: il ministro Bersani, o il Ministro Rutelli, inviano i propri piani quinquennali ehm pardon di modernizzazione al Parlamento, dove vengono entusiasticamente votati anche dall'opposizione, che, dopo aver ricevuto una pacca sulla spalla in conferenza stampa ed una grattatina mediatica dietro le orecchie, si ritira scodinzolante nelle comode cucce dell'emiciclo parlamentare.
Forse, un vero accordo bipartisan non è possibile, anche se esiste la speranza che i volenterosi ci sorprendano positivamente al riguardo. Certamente, il secondo ed il terzo degli scenari alternativi sono improponibili, mentre il primo sarebbe semplicemente una pietra tombale grande quanto lo Stivale.
Un approccio "bipartisan", se volesse seguire il metodo che viene definito da tale termine, implicherebbe un accordo sui singoli temi da parte dei leader di maggioranza ed opposizione. Tale accordo verrebbe finalizzato attraverso una serie di disegni di legge, presentati congiuntamente a firma di autorevoli esponenti di entrambi gli schieramenti parlamentari e votati in maniera palese dal Parlamento.
Il governo dovrebbe restarne, almeno formalmente ed almeno in Aula, al di fuori e dovrebbe ben guardarsi dal porre la fiducia. La "bipartisanship", infatti, si riferisce infatti alla sfera dell'azione parlamentare in un sistema bipolare. Parlamentare, si noti bene: avremmo un ritorno alle radici dell'istituto parlamentare, ultimamente ridotto alle funzioni di un "votificio" e che dovrebbe invece essere in teoria luogo di composizione e riconciliazione di interessi che in alcuni casi sono talmente importanti da coinvolgere gli opposti schieramenti in un sistema bipolare, fino a produrre una legislazione comune.
Un metodo di questo tipo avrebbe due enormi vantaggi: permetterebbe a maggioranza ed opposizione di dialogare, all0interno del Parlamento, su di un piano di parità, sancito in Italia anche dai numeri elettorali, senza la pressione e le "armi improprie" garantite dal controllo dell'attore governativo; eviterebbe che una delle due parti possa arrogarsi il merito delle riforme in via esclusiva, grazie alla paternità congiunta dei provvedimenti, iscritti nei termini delle leggi approvate, che renderebbe esplicito l'accordo.
Non sarebbe necessario né possibile alcun cambio di Governo: non ponendo la fiducia, l'iter della legge o del "pacchetto" di leggi non pregiudicherebbe l'esistenza del Governo; Governo che, d'altro canto, potrebbe rivendicare il merito di aver operato per favorire l'intesa e di aver successivamente applicato ed eseguito i dettati di legge in maniera efficiente, ma non potrebbe "metter cappello" sul lavoro parlamentare.
Le ipotesi previste invece da alcuni elementi nei due contrapposti schieramenti invece vanno in tre direzioni ben diverse, egualmente dannose sia per la Nazione che per le attuali tribù politiche che occupano Montecitorio.
La prima è quella della tentazione "neocentrista" o morotea: l'ennesimo compromesso storico in chiave trasformista, che sotto le spoglie dell'urgenza riformatrice celerebbe il desiderio di una modifica permanente della maggioranza parlamentare in chiave catto-socialista.
La seconda è l'ipotesi delle cosiddette "larghe intese": una Grande coalizione alla tedesca. Abbiamo visto il mediocre successo di una tale iniziativa: mischiando la necessità di un accordo su singoli provvedimenti con il controllo delle leve governative, si confondono due piani con il forte rischio di rendere il processo legislativo ostaggio degli equilibri di potere e poltrone nella sfera esecutiva.
La terza è la curiosa concezione di "collaborazione" di molti, troppi esponenti del centrosinistra: il ministro Bersani, o il Ministro Rutelli, inviano i propri piani quinquennali ehm pardon di modernizzazione al Parlamento, dove vengono entusiasticamente votati anche dall'opposizione, che, dopo aver ricevuto una pacca sulla spalla in conferenza stampa ed una grattatina mediatica dietro le orecchie, si ritira scodinzolante nelle comode cucce dell'emiciclo parlamentare.
Forse, un vero accordo bipartisan non è possibile, anche se esiste la speranza che i volenterosi ci sorprendano positivamente al riguardo. Certamente, il secondo ed il terzo degli scenari alternativi sono improponibili, mentre il primo sarebbe semplicemente una pietra tombale grande quanto lo Stivale.
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