La crisi è arrivata anche sul Golfo Persico: grazie alla riduzione del credito ed al collasso del prezzo del petrolio, le prospettive economiche delle petromonarchie sono in calo, con gli usuali risultati: crollo di banche e Borse e dei mercati immobliari della regione, drogati da credito facile, illusioni di finanza islamica e accecati da una cultura finanziaria spesso arretrata. Con una serie di ripercussioni gravi, nel breve e nel medio periodo, sia per gli arabi che per noi occidentali, pronti a divenire dipendenti dal riciclo dei petrodollari in maniera ben più stabile che nel recente passato.
Sono fniti i miliardi derivanti dalla vendita di petrolio? No, ci sono sempre, ovviamente, ma non per tutti e non per tutto. Non per tutti i potentati del Golfo, perché alcune nazioni, come ad esempio Dubai non hanno in realtà grandi giacimenti; non per tutto, perché è grande il peso degli stati assistenziali e clientelari costruiti sul reddito dai pozzi : l'Arabia Saudita spende pochi dollari per estrarre un barile petrolio, ma il costo di sussidi e servizi sociali ammonterebbe a circa 55 dollari per ogni barile di petrolio venduto. Con il petrolio che veleggia intorno ai 60 dollari, le finanze saudite non sembrano più tanto floride.
La monarchia saudita si trova di fronte ad una scelta difficile: obbligare a lavorare una popolazione ormai abituata ad ottenere gratuitamente quasi ogni servizio e, nel caso delle classi medie ed agiate, un lavoro di tutto riposo appena finiti gli studi; oppure ridurre i sussidi al radicalismo islamico all'estero, tagliare le spese militari, ridurre il consumo della Real Casa e gli sperperi del clero?
Molte piccole monarchie del Golfo Persico non hanno il problema di uno stato assistenziale ipertrofico ed hanno cercato intelligenetemente una diversificazione dal petrolio, crescendo tuttavia in alcuni casi troppo e troppo in fretta, innescando un boom la cui solidità potrebbe essere stata sopravvalutata.
Si è parlato della speranza o della minaccia rappresentata dai cosiddetti fondi sovrani e più in generali dagli investimenti provenienti dai paesi emergenti. Si è ovviamente fatt amolta confusione fra fondi sovrani ed investimenti da parte aziende di Stato Al peggiorare della congiuntura finanziaria, lo scetticismo per l'intervento é stato sostituito dalla ricerca del maggior quantitativo di denaro con la minore interferenza nelle scelte aziendali e politiche. I fondi sovrani dei paesi arabi sono sembrati perfetti : nominalmente autonomi dai propri governi, ma culturalmente legati allÄEurpoa e sensibili ai suggerimenti degli autocrati al potere, pochissimo indebitati e quindi senza rischi di necessità improvvise di monetizzare il proprio investimento ed andarsene, abituati ad investimenti di medio e lungo periodo.
Una crisi finanziaria nei paesi d'origine potrebbe fare abortire l'impegno dei fondi sovrani quali azionisti strategici di lungo periodo: I soldi sono necessari nel giardino di casa e, quindi, le stesse motivazioni politiche che portano alcuni fondi sovrani ad investire in maniera "paziente" e soprattutto poco esigente potrebbero tenerli lontani dai mercati occidentali. Lasciando il campo libero a cinesi ed indiani? O costringendo, finalmente, politici e regolatori ad affrontare la realtà e a smettere di giocare all'apprendista stregone e lasciare in pace gli operatori economici?