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Riproporre un modello fallimentare dandogli una mano di vernice non risolverà i problemi del credito nel mezzogiorno.
Giulio Tremonti ha ottenuto in consiglio dei ministri il via libera per il ritorno al passato: quello privo degli orridi “mercatisti” che tanto detesta, ma affollato dei fantasmi dei disastri statali nel Meridione d’Italia. La Banca del Mezzogiorno arriverà al voto in Parlamento nei prossimi giorni e già Tremonti si sta impegnando in acrobazie verbali per deviare le perplessità in materia. Il primo scoglio da superare è evidente: già il nome, Banca del Mezzogiorno, evoca la sciagurata esperienza della Cassa del Mezzogiorno, un vero buco nero capace di inghiottire migliaia di miliardi delle vecchie lire, lasciando in eredità impianti industriali cadenti, devastazione ambientale e disagio sociale. Il risultato dell’intervento nel Mezzogiorno tramite la Cassa era una tragedia evitabile: Luigi Einaudi fece notare per tempo che sarebbe stato molto meglio favorire la vocazione turistica ed agroindustriale del Sud d’Italia, invece d’incentivare un processo d’industrializzazione pesante per cui le regioni meridionali non avevano i vantaggi comparati di altre zone dello Stivale. Luigi Einaudi, varrebbe notarlo, non era un inascoltato accademico, ma un economista ed opinionista di fama europea e fu Presidente della Repubblica; la scelta per la strada peggiore non fu quindi inevitaible o frutto d’ignoranza. La nuova Banca del Mezzogiorno è un’altra evitabile tragedia, se soltanto questo governo ricordasse le parole di uno dei suoi padri nobili.
STATALE O PARASTATALE? - Secondo il ministro, non si tratterebbe di una banca statale, ma di un’istituzione “disegnata dallo stato” , ed affidata ai privati. Purtroppo non si vedono al momento soggetti privati con un minimo di entusiasmo per il progetto: nonostante le agevolazioni fiscali che vengono promesse alla nuova entità. Il ministro starebbe quindi facendo pressione per una partecipazione delle Poste, ossia di una entità statale, nonché delle Casse di Risparmio e delle fondazioni bancarie, tutte entità parastatali controllate dalla classe politica locale. Il mondo delle banche di credito cooperativo sembra essere reticente, almeno alle attuali condizioni; il sistema delle BCC ha già i suoi problemi e le sue opportunità con l’espansione dei propri bilanci ed il supporto alle piccole e medie imprese nelle proprie aree di competenza. D’altronde, il modello citato ad esempio è quello del Crédit Agricole: una banca che di privato ha davvero poco, controllata com’è da una costellazione di banche cooperative. Un colosso funzionante grazie ad una dirigenza che talvolta finge di non ascoltare i propri referenti politici e, soprattutto, alle facilitazioni fiscali ed al trattamento estremamente benevolo in tema di antitrust e trattamento dei consumatori che il governo francese accorda alla “Banca Verde”. Un modello da valutare attentamente, per una nazione dove le grandi banche già non coccolano il picoclo risparmiatore. Per inciso, vanteria secondo la quale nella neonata banca “non si parla inglese” suona inquietante. Il ministro dimentica forse che i maggiori critici degli eccessi degli ultimi anni sono stati proprio alcuni fra i più accesi liberisti di lingua inglese, mentre i maggiori sostenitori della grande bolla sono stati i governi più interventisti. La crisi finanziaria nasce da abusi che le banche italiane praticano assiduamente da decenni senza nessun bisogno di lezioni dall’estero: obbedire ai politici ed ai propri padrini, nascondere i problemi sotto il tappeto e ricorrere al contribuente quando questo non è più possibile; vantarsi di non guardare alle esperienze anglosassoni significa semplicemente applicare la politica dello struzzo. Ricordiamo infatti che il Sud non è privo di banche per la cattiveria della finanza milanese, ma perché le banche meridionali sono affondate una dopo l’altra sotto il peso di pratiche scandalose e di gestioni antiquate. E’ avvenuto sia per il Banco di Napoli e per il Banco di Sicilia, di proprietà del governo centrale, sia per le casse di risparmio meridionali, istituzioni mutualistiche di fatto controllate dai notabili locali.
CRACK NAPOLETANI Il salvataggio del Banco di Napoli è costato alle casse statali ed al sistema bancario qualcosa come 3,7 miliardi di euro; il Banco di Sicilia venne acquisito dal Mediocredito Centrale quando era sull’orlo della bancarotta. Le casse di risparmio meridionali confluite in Carime vennero tutte salvate da Cariplo dietro ordini diretti di Banca d’Italia, ma riuscirono successivamente ad affondare i conti di BancaPopolare Commercio e Industria. Chiunque si lamenti del colonialismo bancario settentrionale dovrebbe cominciare con il riconoscere che l’alternativa era, in ogni caso, un fallimento che avrebbe condotto a perditeingenti. Sono state tutte realtà devastate non da avventure finaziarie globali, ma da un rapporto perverso con il territorio, lo stesso tipo di rapporto che si vorrebbe ora esaltare: il denaro raccolto dai depositanti viene prestato a tassi d’interesse troppo bassi rispetto ai rischi effettivi dell’investimento in loco. Il risultato è uno squilibrio gestionale, perché gli interessi sui prestiti ad aziende meritevoli non bastano a coprire le perdite su quelli non andati a buon fine. Aggiungiamo a questo le pratiche clientelari endemiche di una gestione dominata da imperativi di natura politica ed è semplice comprendere i rischi di un progetto come quello tremontiano, dove questi problemi si riproporranno in maniera drammatica. Il coordinamento del progetto è poi stato affidato al ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola. Ci si permetta di avere perplessità sul ruolo di sorvengliante della costruzione di una banca che si vorrebbe indipendente dal governo e, si spera, dalle manipolazioni politiche: oltre ad una ben pubblicizzata nostalgia per le partecipazioni statali, ha anche un certo pénchant per iniziative quali lo stanziamento di un milione di euro per ripristinare il volo Roma-Albenga, che per una curiosa coincidenza è l’aeroporto più vicino ad Imperia, residenza del ministro. Non vediamo perché gruppi privati potrebbero entrare nella compagine societaria di una istituzione di questo genere, se non dietro promessa di una contropartita, esplicita od implicita, da parte governativa. A questo punto, rischieremmo di nuovo un copione già visto: socializzazione delle perdite, privatizzazione dei profitti, da parte di soggetti privati che non andrebbero definiti imprenditori, ma prestanome o meglio ancora favoriti del principe. Esistono alternative migliori: ad esempio, l’ipotesi di una no-tax area permetterebbe di incentivare lo sviluppo locale senza distorcerlo, mentre un maggiore investimento in sicurezza ed una politica liberale sulle infrastrutture permetterebbero un maggiore coinvolgimento di capitali privati. Una strada forse rischiosa, ma sicuramente una novità rispetto a grandiosi piani burocratici che si rifanno al passato e che rischiano di tramutarsi , di nuovo, nella solita grande abbuffata a spese del contribuente."
STATALE O PARASTATALE? - Secondo il ministro, non si tratterebbe di una banca statale, ma di un’istituzione “disegnata dallo stato” , ed affidata ai privati. Purtroppo non si vedono al momento soggetti privati con un minimo di entusiasmo per il progetto: nonostante le agevolazioni fiscali che vengono promesse alla nuova entità. Il ministro starebbe quindi facendo pressione per una partecipazione delle Poste, ossia di una entità statale, nonché delle Casse di Risparmio e delle fondazioni bancarie, tutte entità parastatali controllate dalla classe politica locale. Il mondo delle banche di credito cooperativo sembra essere reticente, almeno alle attuali condizioni; il sistema delle BCC ha già i suoi problemi e le sue opportunità con l’espansione dei propri bilanci ed il supporto alle piccole e medie imprese nelle proprie aree di competenza. D’altronde, il modello citato ad esempio è quello del Crédit Agricole: una banca che di privato ha davvero poco, controllata com’è da una costellazione di banche cooperative. Un colosso funzionante grazie ad una dirigenza che talvolta finge di non ascoltare i propri referenti politici e, soprattutto, alle facilitazioni fiscali ed al trattamento estremamente benevolo in tema di antitrust e trattamento dei consumatori che il governo francese accorda alla “Banca Verde”. Un modello da valutare attentamente, per una nazione dove le grandi banche già non coccolano il picoclo risparmiatore. Per inciso, vanteria secondo la quale nella neonata banca “non si parla inglese” suona inquietante. Il ministro dimentica forse che i maggiori critici degli eccessi degli ultimi anni sono stati proprio alcuni fra i più accesi liberisti di lingua inglese, mentre i maggiori sostenitori della grande bolla sono stati i governi più interventisti. La crisi finanziaria nasce da abusi che le banche italiane praticano assiduamente da decenni senza nessun bisogno di lezioni dall’estero: obbedire ai politici ed ai propri padrini, nascondere i problemi sotto il tappeto e ricorrere al contribuente quando questo non è più possibile; vantarsi di non guardare alle esperienze anglosassoni significa semplicemente applicare la politica dello struzzo. Ricordiamo infatti che il Sud non è privo di banche per la cattiveria della finanza milanese, ma perché le banche meridionali sono affondate una dopo l’altra sotto il peso di pratiche scandalose e di gestioni antiquate. E’ avvenuto sia per il Banco di Napoli e per il Banco di Sicilia, di proprietà del governo centrale, sia per le casse di risparmio meridionali, istituzioni mutualistiche di fatto controllate dai notabili locali.
CRACK NAPOLETANI Il salvataggio del Banco di Napoli è costato alle casse statali ed al sistema bancario qualcosa come 3,7 miliardi di euro; il Banco di Sicilia venne acquisito dal Mediocredito Centrale quando era sull’orlo della bancarotta. Le casse di risparmio meridionali confluite in Carime vennero tutte salvate da Cariplo dietro ordini diretti di Banca d’Italia, ma riuscirono successivamente ad affondare i conti di BancaPopolare Commercio e Industria. Chiunque si lamenti del colonialismo bancario settentrionale dovrebbe cominciare con il riconoscere che l’alternativa era, in ogni caso, un fallimento che avrebbe condotto a perditeingenti. Sono state tutte realtà devastate non da avventure finaziarie globali, ma da un rapporto perverso con il territorio, lo stesso tipo di rapporto che si vorrebbe ora esaltare: il denaro raccolto dai depositanti viene prestato a tassi d’interesse troppo bassi rispetto ai rischi effettivi dell’investimento in loco. Il risultato è uno squilibrio gestionale, perché gli interessi sui prestiti ad aziende meritevoli non bastano a coprire le perdite su quelli non andati a buon fine. Aggiungiamo a questo le pratiche clientelari endemiche di una gestione dominata da imperativi di natura politica ed è semplice comprendere i rischi di un progetto come quello tremontiano, dove questi problemi si riproporranno in maniera drammatica. Il coordinamento del progetto è poi stato affidato al ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola. Ci si permetta di avere perplessità sul ruolo di sorvengliante della costruzione di una banca che si vorrebbe indipendente dal governo e, si spera, dalle manipolazioni politiche: oltre ad una ben pubblicizzata nostalgia per le partecipazioni statali, ha anche un certo pénchant per iniziative quali lo stanziamento di un milione di euro per ripristinare il volo Roma-Albenga, che per una curiosa coincidenza è l’aeroporto più vicino ad Imperia, residenza del ministro. Non vediamo perché gruppi privati potrebbero entrare nella compagine societaria di una istituzione di questo genere, se non dietro promessa di una contropartita, esplicita od implicita, da parte governativa. A questo punto, rischieremmo di nuovo un copione già visto: socializzazione delle perdite, privatizzazione dei profitti, da parte di soggetti privati che non andrebbero definiti imprenditori, ma prestanome o meglio ancora favoriti del principe. Esistono alternative migliori: ad esempio, l’ipotesi di una no-tax area permetterebbe di incentivare lo sviluppo locale senza distorcerlo, mentre un maggiore investimento in sicurezza ed una politica liberale sulle infrastrutture permetterebbero un maggiore coinvolgimento di capitali privati. Una strada forse rischiosa, ma sicuramente una novità rispetto a grandiosi piani burocratici che si rifanno al passato e che rischiano di tramutarsi , di nuovo, nella solita grande abbuffata a spese del contribuente."