Le massime autorità economiche USA hanno svelato l’ennesimo piano per “salvare” il mercato da se stesso e passano adesso da eroi. Eppure, potrebbero essere gli eroi di una tragedia di cui sono stati gli sceneggiatori, una truffa di cui sono insieme vittime ed ideatori.
Gli avvenimenti della scorsa settimana sono stati raccontati in maniera quasi unanime da parte della stampa, soprattutto italiana: la banca d’affari Lehman Brothers è fallita, il colosso delle assicurazioni AIG rischiava di fare altrettanto. Il governo americano ha quindi indossato l’armatura da cavaliere errante e si è gettato al salvataggio, come aveva già fatto per Fannie Mae e Freddie Mac. Non contenti, la Federal Reserve, il Tesoro ed i leader del Congresso si sono riuniti per risolvere definitivamente la crisi attraverso una serie di misure di portata storica. La manovra ha innescato una serrata caccia al responsabile della crisi. C’è chi accusa la deregulation reganiana; altrove si punta il dito verso il supporto governativo fornito negli anni passati ai due Moloch parastatali attivi nel mercato dei mutui, verso le pratiche lassiste sul fronte della politica monetaria, verso la cieca fiducia nella superiore intelligenza delle Authority e quindi nelle banche e nelle agenzie di rating vigilate; fiducia ben poco fondata, visto che i maggiori danni al sistema sono venuti proprio dalle entità tanto ben regolamentate e vigilate. Questo dibattito, tuttavia, riguarda la diagnosi della crisi. Sulla sua cura, a base di denaro del contribuente, sembra esistere un rassegnato consenso: ben pochi hanno applaudito all’operazione come ad un successo, ma anche fra i non-collettivisti molti hanno accettato la soluzione quale il male minore, inevitabile dato il punto a cui è arrivata la crisi finanziaria.
C’ERANO ALTERNATIVE? - E’ andata davvero così? Eravamo davvero alla frutta, allo sfascio completo? No, non lo eravamo. Per sostenere l’inevitabilità dell’intervento è necessario ritenere inconfutabili almeno due ipotesi: che non esistevano alternative private al salvataggio di AIG (e di altre istituzioni finanziarie) da parte del Governo e che il settore bancario non potesse sopravvivere e riprendersi in autonomia, perché le perdite inflitte sono troppo grandi in relazione a capitale e redditività dei grandi istituti. Entrambe le ipotesi possono essere confutate. Non è corretto affermare che AIG non poteva essere salvata dai privati. Almeno due acquirenti si erano fatti avanti o erano pronti a farlo, anche senza denaro pubblico. Uno era J.C. Flowers, leggendario gestore di un fondo di private equity specializzato in acquisizioni bancarie. L’altro era Maurice R. Greenberg, amministratore delegato della società per decenni e suo fondatore. In aggiunta, i fondi di private equity KKR e TPG erano pronti ad investire, se i regolatori avessero concesso alcune garanzie.
IL BLUFF DI AIG - Giova qui ricordare che AIG è una multinazionale, con una raccolta premi di 110 miliardi di dollari all’anno; gli 85 miliardi di dollari di cui aveva bisogno erano meno della metà fino a lunedì e corrispondono ad alcuni punti percentuali del patrimonio totale di AIG, misurato in circa mille miliardi di dollari. La situazione era quindi critica, ma gestibile ed è precipitata a causa della decisione di rifiutare l’offerta di J.C.Flowers, perché avrebbe dato all’acquirente-creditore l’opzione di comprare l’intera società per circa 8 miliardi di dollari in determinate condizioni. Il management di AIG ha scommesso che il governo federale si sarebbe lasciato convincere a fornire credito a condizioni migliori, pur di salvare un “campione nazionale” in temporanea difficoltà. La buona notizia è che sono stati salvati, che il governo non ha del tutto svelato il loro bluff. La cattiva - per AIG - è che i termini richiesti dal Governo sono paragonabili a quelli di J.C.Flowers: Hank Paulson è un ex banchiere d’affari e questa volta non si è lasciato fregare - del tutto. Quello che rimane e che viene ben poco scritto e raccontato è che AIG si sarebbe salvata senza bisogno del governo; vi ha fatto ricorso perché la dirigenza pensava che i politici avrebbero fornito fondi a buon mercato.
UNA STORIA COMUNE - La vicenda AIG è interessante anche per un altro motivo: è la storia di gran parte di questo mercato. Anche astraendo dall’affaire AIG, è inutile negare la serietà della crisi che la scorsa settimana ha colpito Wall Street: Lehman Brothers fallita, Merrill Lynch vendutasi a Banc of America; persino un colosso come Morgan Stanley e Goldman Sachs, la banca prima della classe per redditività e capacità di navigare i mercati, cominciavano ad essere messe seriamente sotto pressione. Anche il prezzo dell’assicurazione contro il default dell’icona americana per eccellenza, General Electric, stava salendo precipitosamente. Questo significa che l’intervento statale era di nuovo inevitabile? No. Non lo era, neppure dopo la lunga serie di errori statali che hanno trasformato un normale ciclo di mercato in una crisi. Da un lato, esistono indicatori che puntavano alla possibilità di soluzioni di mercato. La crisi di Morgan Stanley è iniziata e si è sviluppata con la netta sensazione che il risultato sarebbe stata una incorporazione in una banca commerciale e non con un fallimento; il nervosismo su Goldman Sachs è stato notevole, ma neppure lontanamente paragonabile a quello su Lehman Brothers.
LA SOLUZIONE DI MERCATO - Giova ricordare che il settore finanziario viene da un decennio di vacche grasse all’estremo: si calcola che negli ultimi 10 anni i profitti realizzati dal settore finanziario siano stati di 1200 miliardi di dollari superiori al saggio normale di redditività. Al momento, l’intero sistema bancario occidentale ha svalutato i propri portafogli di circa 550 miliardi; la conseguenza è che, al momento, questa crisi per quanto grave non sarebbe ancora arrivata ad intaccare la redditività “di base” del sistema bancario: la crisi, per molte banche, significa semplicemente il ritorno ad una relativamente prospera normalità dopo anni di veri e proprio boom. Non fraintendetemi: una soluzione “di mercato” sarebbe dolorosa, con perdite forse più pesanti di quelle che abbiamo sperimentato sinora, ma avrebbe il pregio di correggere le storture del sistema attuale. La situazione è molto seria, ma esistono in teoria le risorse e le opportunità per risolvere il problema senza ricorrere alla mangiatoia di stato: numerose banche sono riuscite a completare piani di ricapitalizzazione, parecchie hanno trovato nuovi investitori e si sono riorganizzate, mentre un consorzio di dodici banche primarie si stava attrezzando per costituire un fondo di stabilizzazione da circa 70 miliardi di dollari. Persino il fallimento di Lehman Brothers ha prodotto numerose onde d’urto, ma il sistema ha continuato a funzionare, anche nei suoi segmenti più recenti e meno avvezzi ad eventi del genere, come il mercato dei derivati di credito.
LE RESPONSABILITA’ POLITICHE - Ma perché spendere decine di miliardi di dollari per operazioni di mutuo soccorso; perché doversi presentare con il cappello in mano di fronte ad azionisti ormai abituati soltanto a ricevere lauti dividendi; perché accettare l’onta di essere acquisiti per due lire da qualcuno più prudente ed accorto, quando c’è Pantalone pronto a pagare per tutti, se lo si spaventa abbastanza? Questo sembra essere il vero nocciolo del problema. Questo è probabilmente quello che è accaduto. L’intervento statale, soprattutto in questa forma, non è stato il risultato di una necessità draconiana, ma di un clamoroso autogol da parte di politici e burocrati, l’ultima spiaggia di un errore lungo un decennio: l’ipotesi che il mercato debba sempre salire, che le aziende non falliscano e che i sistemi finanziari, come le economie reali, non siano soggetti a periodi di crisi; l’illusione, insomma, di potere e dovere eliminare la volatilità ed il rischio tramite regolamentazione e vigilanza. Quello che accade, ovviamente, è che si ingessa un sistema, lo si rende rigido e fragile, privo dello scetticismo necessario a mantenere realistiche le aspettative ed acuti i sensi degli unici veri efficaci controllori del management: gli azionisti. Per anni si e’ parlato della Fed put: del fatto che la banca centrale ed il Governo americano sarebbero stati pronti ad intervenire in caso di un brusco ribasso del mercato azionario, un compito decisamente al di fuori del tradizionale mandato dell’autorità monetaria. L’attuale governatore della Fed, Ben Bernanke, si è sentito in dovere di ribadire il concetto, anche con i fatti, in passato. Forse non si son resi conto che stavano scrivendo una vera e propria cambiale in bianco, una polizza di assicurazione che è finita incorporata nei valori di Borsa e che ha sostituito per un certo tempo le prospettive di crescita economica che stavano seguendo il momento declinante del ciclo economico.
EFFETTI INDESIDERATI - Il risultato non si è fatto attendere: il mercato è stato stabilizzato per qualche tempo dall’ingessatura parastatale, ma questo ha soltanto garantito che i problemi si accumulassero in altre parti del sistema, meno severamente controllate. I continui interventi hanno ritardato una correzione già nei numeri da fine 2005, arrivata invece adesso tutta insieme, mentre in assenza di interferenze avremmo forse avuto un boom meno prolungato ed una caduta meno precipitosa. Il risultato è che invece della tanto agognata stabilizzazione si è ottenuto l’opposto: un boom troppo lungo, seguito da un calo apparentemente improvviso, quando la diga si è rotta e molti partecipanti al mercato hanno adottato la tattica del “tanto peggio tanto meglio”: vendere, perché dopo il crollo si sarebbe potuto ricomprare a prezzi più bassi e ci sarebbe stato un intervento della Fed per mettere un cerotto ai danni.
PROMESSE DA MANTENERE - Forse si tratterà di un caso, ma durante il momento più acuto di panico della settimana nera il maggior venditore di rischio sul mercato dei derivati di credito era una delle maggiori banche d’investimento; la stessa che, alla vigilia del nuovo piano di salvataggio, ricomprava pesantemente. Esiste almeno il fondato sospetto che l’intervento sia stato precipitato proprio dall’impegno dei politici a farlo: è divenuto conveniente, per i maggiori attori di mercato, perdere la calma e farsi prendere dal panico, inducendo così una reazione inevitabile, dato che il Governo si era già di fatto impegnato politicamente a salvarli e che quindi fosse conveniente giocare sul filo del rasoio, per scaricare le proprie perdite sulle spalle dei contribuenti. L’alternativa, pagare per i propri errori, sarebbe stata possibile, ma molto meno apprezzabile che accusare la sfortuna e incassare gli assegni dello Zio Sam. Una delle migliori regole per gestire il rischio, in finanza, e’ molto semplice: non fare promesse che non puoi mantenere o rinnegare senza rimetterci le penne. Sembra proprio che gli esperti, i banchieri centrali ed i funzionari del Tesoro che pensavano di poter manipolare il mercato in modo che ignorasse i fondamentali, senza capire che qualcuno avrebbe, prima o poi, provato a far mantenere loro quella promessa.
LA SOLUZIONE PEGGIORE - Ed ora? La reazione adottata dalle autorità pubbliche americane è degna del peggior veterosocialismo o dell’Iri del fascista-socialista Beneduce e del corporativo-cattolico Fanfani. Hanno garantito il valore dei fondi di mercato monetario, hanno vietato la vendita allo scoperto di un vasto numero di azioni e, soprattutto, hanno ideato un piano per eliminare il problema dei cosiddetti “attivi tossici”, colpevoli di valere molto meno di quanto le banche abbiano speso per acquistarli. La soluzione è tipicamente politica: far sborsare somme ingenti al contribuente per acquistare tali attività e nasconderle, pardon custodirle in un luogo sicuro, al riparo da seccature quali l’obbligo di dichiararne il valore di realizzo. Nel frattempo, Goldman Sachs e Morgan Stanley si preparano a darsi alla tradizionale attività bancaria di raccolta di depositi: le vecchiette sono avvisate, in cambio del guinzaglio corto anche le banche d’affari potranno approfittare, pardon, servire i depositanti. Non facciamoci ingannare dal sollievo per l’intervento statale: il governo e la Fed, più che una soluzione, sono stati parte del problema sin dall’inizio. Chi rompe paga, ed i cocci sono suoi. Peccato che a pagare, per queste centinaia di miliardi di cocci, saranno i contribuenti.