mercoledì, luglio 19, 2006

Apartheid in Brasile

in Brasile si sta parlando di programmi esplicitamente diretti a schedare la popolazione secondo criteri razziali ufficialmente riconosciuti, al fine di poter discriminare assunzioni ed accessi alle scuole in base alla razza.
La "legge sulle quote razziali" e la "legge sull'eguaglianza razziale" all'esame del Parlamento Brasiliano riserverebbero quote ( inizialmente al 20% a salire fino al 50%) dei posti nelle Universita' federali e nell'amministrazione pubblica a coloro che venissero designati come "di origine africana". Sono previste estensioni della legge ad Indios e, grazie ad un'altra legge, a coloro con handicap fisici.

Tutto questo sta avvenendo in una nazione dove esistono circa 136 termini per descrivere la tonalita' della pelle e l'incrocio razziale; in uno dei pochi Paesi dove la commistione razziale, piu' che la sua purezza, risiede al cuore dell'identita' nazionale; dove l'assenza , almeno teorica, di retorica e discriminazioni puramente razziali sono motivo di vanto e patrimonio condiviso.

Non si discute qui l'enorme divario fra ricchi e poveri in Brasile, ne' la ridotta presenza dei gruppi razziali non europei al vertice della societa' e della scala reddituale, ma l'efficacia della proposta e soprattutto i rischi di conseguenze "inattese" e controproducenti sulla societa' brasiliana, distruggendone proprio la diversita' e la per quanto imperfetta tolleranza etnica: questo pericolo e' talmente evidente da aver spinto 500 intellettuali ed artisti, fra cui Caetano Veloso (non certo un noto razzista), ad opporsi alla legge, citando l'inadeguatezza e la pericolosita' di imporre ad una societa' almeno parzialmente mista una legge che dividerebbe di fatto i brasiliani in "bianchi" e non bianchi. Hanno ragione: lo Stato imporrebbe una camicia di forza, creando artificialmente una vera e propria linea di confine, una rigida separazione in caste ad una societa' caratterizzata da una serie di sfumature che ha finora impedito politiche esplicitamente razziste ed ha permesso al Brasile di evitare conflitti etnici e razziali paragonabili a quelli di altre nazioni.

Si dimostra qui la miopia di alcuni ideologi "progressisti", tinta di razzismo, seppure alla rovescia: sembrerebbe quasi che per certi "amici dei poveri" pensino che una persona di colore non sia in grado, con le roprie forze, di avere le stesse probabilita' di successo di un bianco, anche se vi fossero correzioni per le condizioni di partenza individuali; che il terreno di gioco vada sempre e comunque falsato.
Se lo scopo fosse la riduzione dell'ineguaglianza sociale, perche' non basterebbe indirizzare politiche di sviluppo alla parte piu' povera della popolazione, invece che ad una determinata minoranza etnica?

Ritengo futile chiamare questi programmi con eufemismi: si chiamava apartheid in Sud Africa, "segregazione" negli USA. Il fatto che venga fatto contro i bianchi o contro coloro che sono statisticamente piu' ricchi non modifica la sostanza, ma rende i nostri socialisti di sinistra e progressisti dei sostenitori di metodi ferocemente criticati, in teoria, fino a pochi seocndi prima.

Esattamente come in Sud Africa o negli USA, invertire i ruoli di vittime e carnefici non rende meno assurdo il principio alla base della discriminazione razziale: che lo Stato abbia il diritto di marchiare i cittadini come capi di bestiame o cani.

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