mercoledì, gennaio 21, 2009

Garanzie d'insuccesso

Un crosspost del mio pezzo per Giornalettismo. Alla luce della nazionalizzazione di fatto di RBS e delle misure di emergenza della Bank of England, che sta per mettersi a comprare anche corporate bond stampando moneta, pur di arginare la crisi, pesno abbia senso ricordare i problemi che derivano da nazionalizzazioni ed aiuti. Il sistema finanziario è già il settore docve da sempre si avverte maggiormente l'interferenza dello Stato, siamo sicuri che un'altra dose di interventismo avrà successo, quando le precedenti non hanno mai funzionato come previsto?

L'intervento statale nel settore finanziario in crisi, mediante massicce iniezioni di denaro pubblico o la nazionalizzazione, non sembra essere la soluzione al problema, avendo come unico effetto quello di ritardare collassi ormai inevitabili.
Il governo USA ha deciso di lanciare l'ennesima cortina fumogena e una camionata di denaro pubblico in difesa del settore finanziario; i mercati festeggiano lo scampato pericolo e le nuove garanzie da 120 miliardi, ma per vedere come rischia di andare a finire è sufficiente vedere cosa è successo quasi contemporaneamente in Irlanda, dove il governo si è trovato costretto a nazionalizzare Anglo Irish Bank, per evitare che le garanzie prestate venissero esercitate.
GARANZIE "INVISIBILI" - Il giorno stesso in cui il Senato USA ha deciso di non opporsi alla seconda tranche dei 700 miliardi del fondo di salvataggio per le banche americane, è stato annunciata la nuova, gigantesca ciambella di salvataggio per Bank Of America, per cui si sussurrava di difficoltà legate alle acquisizioni di Countrywide e Merrill Lynch. Il Tesoro americano ha promesso altri 20 miliardi di dollari di capitale fresco e, soprattutto, si è impegnato in una gigantesca garanzia sulle svalutazioni dell'attivo: il governo ha annunciato che il colosso finanziario si dovrà preoccupare soltanto dei primi 10 miliardi di perdite da svalutazioni , mentre assorbirà il 90% di ogni perdita sino a 98 miliardi di dollari. Si tratta in sintesi, di una gigantesca polizza assicurativa da 108 miliardi con 10 miliardi di franchigia. Il totale dell'aiuto offerto è di 118 miliardi. Avete letto bene. 118 miliardi. Si potrebbe sostenere che la garanzia, di per sé, non implica necessariamente l'esborso di tali somme, dato che le perdite effettive potrebbero essere minori o non esistere affatto, in caso di ripresa del mercato. La teoria che giustifica all'estensione di generose garanzie è che la garanzia statale dovrebbe arginare la crisi di fiducia nel sistema, eliminando di conseguenza il rischio che venga mai impiegata. Nel frattempo, le garanzie non risultano nei bilanci statali, permettendo ai politici di ignorarne il costo; si tratta di uno stratagemma simile a quello impiegato per Fannie Mae e Freddie Mac oppure nei bilanci bancari degli ultimi anni, dove non risultavano immediatamente visibili le montagne di debito nascoste in comodi veicoli fuori bilancio.
IL CASO DELLA ANGLO IRISH BANK - Purtroppo per Obama e Bernanke, questa teoria è valida sono in condizioni particolari e non può essere abusata a lungo, per nascondere errori precedenti. Funziona per risolvere temporanee crisi di fiducia che colpiscono aziende fondamentalmente solide, improvvisamente private di liquidità a causa di eventi esterni che scatenano il panico. Quando il problema riguarda gli equilibri fondamentali, la qualità degli attivi di bilancio, e non soltanto la mera percezione dello stato di salute della tesoreria, banche ed aziende andrebbero lasciate a se stesse, intervenendo se necessario per agevolare il processo di ristrutturazione anche attraverso il fallimento. Le conseguenze di un approccio basato sul puro lancio di denaro pubblico nella cloaca sono note: i problemi si ripresenteranno, presto o tardi, in forma talmente grave da richiedere l'esercizio della garanzia, buttando altro denaro e soprattutto distruggendo la reputazione degli enti governativi garanti, il cardine stesso della politica monetaria e finanziaria statale. Lo ha scoperto a sue amare spese il governo irlandese, che si è trovato costretto questa mattina a nazionalizzare Anglo Irish Bank . La scelta era obbligata, a causa della garanzia governativa da 100 miliardi concessa alcuni mesi fa all'intero settore bancario, in teoria per "risolvere" il problema e l'ulteriore iniezione di capitali nella banca, avvenuta appena prima di Natale, per "porre definitivamente fine" ai dubbi sulla solvibilità della banca.
MANOVRE PERICOLOSE - Vista la mala parata, semplicemente meglio nazionalizzare che essere costretti ad onorare la garanzia, un esborso che il governo irlandese si sarebbe potuto difficilmente permettere senza affondare miseramente. La manovra non sembra perfettamente riuscita: il prezioso rating AAA sembra in bilico e si parla addirittura di salvataggio da parte del Fondo Monetario Internazionale. La conseguenza è che l'Irlanda sembra essere destinata a sostituire l'Italia nelle nazioni descritte dall'acronimo PIGS, che definisce gli emittenti europei più problematici; le conseguenze del "salvataggio" si sono viste quasi immediatamente sul mercato dei CDS : i premi per assicurare il debito di Spagna, Germania, Austria ed ovviamente Irlanda sono saliti ai massimi storici. Il movimento sembra esagerato, osservando le probabilità di default implicite nei costi di assicurazione, ma nell'immediato è sensato per una quesitone legata proprio al settore finanziario: non soltanto la nazionalizzazione di una banca e la concessione di garanzie ad un intero sistema finanziario aumentano la quantità di debito che può essere assicurata con tali derivati, aumentandone la richiesta; il costo di tale debito si allinea anche con il rendimento degli strumenti che offrono il tasso d'interesse più elevato fra quelli disponibili e il debito bancario offre un differenziale di rendimento positivo rispetto ai "tradizionali " titoli di Stato. Nonstante il tentativo di nascondere sotto il materasso la crisi, insomma, il mercato vede attraverso le formalità legali e riconosce la mutata situazione.
NAZIONALIZZAZIONE TEMPORANEA? - A questo punto, la domanda sorge spontanea: gli USA o, se per questo, il Regno Unito saranno costretti ad affrontare una situazione simile a quella irlandese? Gli investitori andranno prima o poi all'incasso delle garanzie generosamente fornite da Washington, causando un aumento del costo del debito ed una possibile crisi, seppure meno grave di quella irlandese? La risposta è che la probabilità di una conclusione "all'irlandese" del piano americano sembra per ora poco probabile, o perlomeno lontana: le risorse a disposizione sono molto maggiori, grazie alla possibilità di tassare un'economia grande e diversificata come come quella americana e di estrarre valore. E' necessario chiedersi, tuttavia, se esistono soluzioni migliori e meno pericolose nel lungo termine. Una sarebbe quella proposta, nella sua forma meno socialista, da Willem Buiter: la nazionalizzazione temporanea delle grandi banche. La tesi di Buiter è stata pensata per il sistema finanziario inglese, ma è valida anche per quello USA: le garanzie statali e le iniezioni di capitale non sono che costosi palliativi che procrastinano l'inevitabile collasso di banche che hanno pagato remunerazioni eccessive ai propri azionisti e dirigenti impiegando denaro che non avevano, usando denaro preso a prestito a fronte di attività di bilancio detenute in quantità eccessiva e valutate in maniera eccessivamente ottimistica.
PERCHE' NON FUNZIONA - Oltretutto, la minaccia che la nazionalizzazione sia imminente contribuisce ai timori che dissuadono gli investitori privati dal sottoscrivere aumenti capitale bancario: perché farlo, quando il governo potrebbe prendersi l'intera baracca, spazzando via gli azionisti da un giorno all'altro e bruciare il loro capitale? A questo punto, sarebbe meglio rassegnarsi all'inevitabile e farlo subito, piuttosto che perdere altro tempo ed altro denaro. L'argomentazione è interessante, ma nella ricerca di un rimedio drastico dimentica almeno tre punti fondamentali, che forse la rendono più pericolosa del male. In primo luogo, dimentica la storia, sia recente che di lungo periodo. In secondo luogo, la nazionalizzazione, di per sé, non porterebbe necessariamente alla soluzione del problema più urgente, ossia l'incertezza sul valore effettivo dei bilanci bancari, mentre renderebbe ancora peggiore il vero difetto di lungo termine del sistema: il patto faustiano fra regolatori e banche, rendendolo probabilmente anche peggiore, in base al quale i banchieri vengono protetti dalle normali forze di mercato, in cambio da un lato di una regolamentazione in teoria minuziosa. In primo luogo, I casi nei quali la nazionalizzazione sia stata una soluzione sono molto meno numerosi di quelli in cui lo stato non sia diventato una parte del problema.
LA STORIA INSEGNA - Di recente ci si è concentrati molto sui buoni risultati prodotti da una sola esperienza positiva e sottovaluta l'esperienza storica in Europa e negli USA. In Scandinavia nei primi anni '90 una crisi valutaria portò ad una rapida nazionalizzazione di buona parte del sistema bancario, al trasferimento di buona parte dell'attivo problematico ad istituzioni separate dall'attività bancaria vera e propria ed alla vendita di tali banche "ripulite" sul mercato nel giro di pochi anni. La radice del problema era ancora una volta in politiche governative fallaci, ma i sintomi erano differenti: le banche si erano indebitate in valuta estera e quindi i pagamenti sul debito erano esplosi a causa di una svalutazione, ma le attività nei bilanci bancari erano relativamente sane, perché i principi base per la concessione di crediti erano stati mantenuti. Nel caso attuale, l'eccesso di liquidità e la protezione statale hanno portato ad una erosione della qualità dei prestiti, il cui recupero sarà molto più problematico. In altri casi, la storia non è neppure lontanamente a lieto fine. In Italia, l'IRI venne costituita nel 1933 come ente provvisorio per provvedere alla ristrutturazione e privatizzazione del sistema bancario; le tre BIN (banche d'interesse azionale) rimasero in mano pubblica per decenni e vennero privatizzate soltanto a metà degli anni '90. L'esperienza inglese nel settore industriale è, se possibile, ancora più negativa. Se qualcuno pensasse che la classe politica USA sia meglio dotata per procedere ad una rapida ristrutturazione e dismissione, dovrebbe pensarci due volte: Conrail , il conglomerato nato dalla fusione delle società ferroviarie fallite negli anni '70, rimase in mani governative per ben dieci anni, nonostante notevoli investimenti, due amministrazioni presidenziali impegnate nella riforma del settore, una deregolamentazione del settore che eliminò le follie politiche responsabili della crisi strutturale del settore ed un ottimo management che ne migliorò drasticamente le performance. Immaginiamoci cosa potrebbe accadere con un partito democratico sbilanciato a sinistra ed ostile al libero mercato, un presidente ansioso di emulare il corporativismo alla Roosevelt ed una cricca di consiglieri provenienti dallo stesso ambiente del governatore Blagojevich, quello che si è cercato di vendere il seggio senatoriale reso vacante da Obama.
UNA QUESTIONE DI FIDUCIA - In secondo luogo, la nazionalizzazione non risolverebbe necessariamente il problema più pressante, perché impedisce il ritorno della fiducia e quindi la propensione degli investitori ad investire di nuovo risorse nel settore finanziario: l'effettiva redditività del settore, al netto della sopravvalutazione degli attivi. Chiediamoci perché, se il mercato rifiuta di prestare alle grandi banche, i governi dovrebbero farlo, in maniera ripetuta, aspettando che il management si decida finalmente a fare pulizia in maniera talmente drastica da convincere il mercato che adesso i bilanci sono stati ripuliti da ogni eccesso. Gli investitori non si rifiutano di intervenire soltanto per il rischio di nazionalizzazione, ma soprattutto per l'incertezza su ciò che è contenuto nei bilanci. Trovare il vero valore dell'attivo bancario è prioritario e nel caso tale valore fosse inferiore al valore delle passività, esistono già numerosi strumenti per evitare una crisi sistemica. Si proceda ad un commissariamento, che salvaguardi le attività fondamentali e permetta di chiarire quali ristrutturazioni di bilancio necessarie: già tutt'ora, le banche non falliscono, vengono prese in cura dalle autorità monetarie. Una procedura concorsuale, per quanto traumatica, ridurrebbe grandemente i rischi e permetterebbe di ripartire da capo, su basi realistiche , oltre a garantire una ristrutturazione meno politicizzata di un intervento diretto dello Stato.
CIRCOLO VIZIOSO - Il terzo problema è di natura più strutturale: anche se per miracolo l'intero mondo bancario venisse risanato e la redditività si stabilizzasse a livelli accettabili, il settore sarebbe comunque profondamente distorto e di nuovo a rischio dell'ennesimo ciclo di euforia e crisi. La motivazione deriva nella natura del patto faustiano, fra governi e banchieri, nei quali anche le migliori amministrazioni sarebbero intrappolate: il sistema bancario, ossia le organizzazioni burocratiche che gestiscono il credito, vengono implicitamente garantite da governi e banche centrali, in cambio di una pesante regolamentazione e della cosiddetta "moral suasion", ossia obbedire agli ordini di scuderia in tema di politica monetaria e di credito. Una banca nazionalizzata avrebbe lo stesso problema, aggravato dal fatto che le pressioni ad estendere credito in maniera eccessiva (anche qui, l'Italia degli anni '70 ed '80 fornisce anche troppi, tristi esempi) arriverebbero direttamente dall'azionista pubblico e sarebbero di conseguenza irresistibili. Diremmo addio, quindi, anche alla parodia di mercato nel credito; sarebbe una scelta onesta, ma che distruggerebbe definitivamente ogni speranza di creare un sistema razionale per dare un prezzo ad uno degli elementi essenziali di una economia libera.
Visto dove siamo arrivati, è ovvio che sarebbe stato meglio lasciar fallire le prime banche ad avere problemi, invece di gettare somme sempre più grandi nel calderone, senza alcun effetto. La paura si risolve portando allo scoperto i problemi, non nascondendoli sotto la coperta troppo corta delle assicurazioni di quegli stessi governi e regolatori che hanno contribuito alla crisi. Iniettare una ulteriore dose di statalismo, nazionalizzando le banche in maniera esplicita oppure garantendone l'attività ed i pagamenti, rischia di non risolvere il problema, ma semplicemente di aggiungere un altro livello di irresponsabilità a quelli già esistenti.

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